LIVORNO: IL PICCOLO MARAT – Pietro Mascagni, Teatro Goldoni 12 dicembre 2021
IL PICCOLO MARAT
Dramma in tre atti su libretto di Giovacchino Forzano
Musica di Pietro Mascagni
Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano
Sovratitoli a cura della Fondazione Teatro Goldoni
Direttore Mario Menicagli
Regia Sarah Schinasi
Personaggi e interpreti:
- L’Orco Andrea Silvestrelli
- Mariella Valentina Boi
- Il piccolo Marat Samuele Simoncini
- La Mamma Silvia Pantani
- Il soldato Stefano Marchisio
- La spia Alessandro Martinello
- Il ladro Pedro Carrillo
- La tigre Michele Pierleoni
- Il carpentiere Alberto Mastromarino
- Il capitano dei “Marats” Carlo Morini
- Il portatore d’ordini Luis Javier Jimenez Garcia
- Una voce Marco Mustaro
- Il Vescovo Paolo Morelli
Scene e costumi William Orlandi
Light designer Christian Rivero
Assistente ai costumi Maria Vittoria Benedetti
Orchestra della Toscana
Coro del Teatro Goldoni Livorno
Maestro del coro Maurizio Preziosi
Teatro Goldoni, 12 dicembre 2021
Il Piccolo Marat ha compiuto 100 anni ed a Livorno, città natale del Compositore, se ne rinnovano i fasti con una nuova produzione di gran pregio, sia per la parte musicale che per la parte scenica. C’è chi ha detto “ci vuole un bel coraggio“, ma i livornesi in ciò non son secondi a nessuno ed il grido “Viva Mascagni” lanciato da una spettatrice entusiasta durante la seconda recita – purtroppo unica replica – domenicale ne conferma lo spirito.
Un coraggio che, a dire il vero, ci si aspetterebbe da altre e più poderose, almeno economicamente, istituzioni. Le quali al repertorio italiano della Giovane Scuola, tolti i “soliti” titoli, alcuni comunque serviti con troppa parsimonia, guardano se non con snobbistica sufficienza, con pregiudizio politico e culturale: alla lista di autori includerei Giancarlo Menotti e Nino Rota, altri grandi assenti dalle nostre scene.
Si dà il caso che per ascoltare questo lavoro di Mascagni si debba andare all’estero o, nel caso del sottoscritto, ricorrere alla memoria un tanto nebulosa, ma ancora presente, di una recita a Padova e correva il 1976. Sull’opera, che tra quelle meno note da me ascolate di Mascagni considero una delle più interessanti, sia per l’audacia sperimentale dell’Autore, il quale mai si crogiolò sul trionfo iniziale di Cavalleria rusticana, ma anzi cercò sempre nuove vie espressive, non sempre va detto con risultati teatralmente soddisfacenti, si favoleggia l’ineseguibilità, specie per la parte del protagonista che vide tra i primi interpreti Beniamino Gigli, il primo in assoluto all’Opera di Roma, ed Hipolito Lazaro, celeberrimo “espada” catalano per cui Mascagni concepì anche il Folco di Isabeau, altra opera da riproporre.
Qui a Livorno se n’è sfatato il mito, grazie ad un interprete di vaglia che mi compiaccio di seguire sin dai suoi primi passi: il tenore Samuele Simoncini. Il quale si conferma come un “mascagnano” di riferimento per il prossimo futuro. La voce, timbricamente pregevole, si dipana facilmente in acuto ed affronta la tessitura ardua, quasi tutta sviluppata nella temibile zona del passaggio, con naturale facilità; dotata di squillo e di ottima proiezione, in grado di superare senza sforzo l’ordito orchestrale rigoglioso ed impegnativo che accompagna tutta l’opera. Ma non basta, avis rara tra i tenori “spinti” egli canta senza “spingere”, anzi riuscendo a fraseggiare con varietà di colori, d’intenzioni, cantando pure piano e cercando, laddove lo spartito glielo consente, di sfumare, addolcire ed essere oltre che gagliardo, amoroso, filiale ed innamorato. Ciò è emerso specialmente nell’arioso che chiude il primo atto, dove rincuora la madre condannata dietro le sbarre del carcere, e soprattutto nel trascinante duetto d’amore con il soprano, l’ottima Valentina Boi, bissato a furor di popolo.
La Boi, si dirà, gioca in casa (ma molti, oltre a lei, i valenti toscani nel cast) essendo di Livorno. E’ ora che i riflettori si puntino, anche in Italia, su questa artista che all’estero affronta un repertorio di grande spessore: Abigaille in Nabucco, Turandot, ecc. La sua Mariella, unico personaggio a cui si attribuisce un nome, conosce in corso d’opera una evoluzione psicologica e vocale notevole, dalla semplice fanciulla sperduta nel primo atto, alla donna innamorata nel secondo, all’eroina nel terzo. Il tutto coronato da una vocalità ampia, sicura, con una voce emessa ad arte, dal timbro ammaliatore e dolcissimo, pur nella ricchezza di armonici. Bravissima pure lei.
Personaggio negativo, il “cattivissimo” della truce storia che si rifà ad un fatto realmente avvenuto durante il “Terrore” a Nantes, dove e quando i condannati dal comitato rivoluzionario, senza processo, venivano legati in barconi, lasciati alla deriva sulla Loira e quindi fatti esplodere con una carica esplosiva ed annegati, ha avuto un ottimo interprete nel basso Andrea Silvestrelli, dotato di una voce ampia e appropriatamente “cavernosa” nel colore assai scuro da giustificarne l’appellativo di “Orco”.
Viceversa il lato umano emerge dalla figura del Carpentiere, il quale in orrore al suo lavoro che produce i battelli poi affondati, si confida al Soldato, un personaggio “rivoluzionario” sì, ma in cui si concentrano i valori della Rivoluzione: nel 1921, del resto, il dualismo politico tra il nascente Partito Comunista, che proprio a Livorno fu fondato, e l’imporsi del fascismo, era una realtà che si riflette l’opera, il cui autore era considerato fascista dai bolscevchi e bolscevico dai fascisti, ma che ebbe un ruolo importante nella rivolta degli operai del Cantiere Orlando a Livorno, sostenendoli e partecipando al varo di una nave da loro costruita. Qui si è avuta un’interpretazione esemplare tanto nel veterano baritono Alberto Mastromarino, che ha messo al servizio oltre alla sua voce piena e corposa tutta la lunga esperienza teatrale ricavandone il massimo, quanto nel giovane baritono Stefano Marchisio, dal timbro brillante e dotato di una proiezione notevole. Un Carpentiere ed un Soldato che rimarranno impressi nella memoria.
Ma tutto il cast è parso edeguato: la Mamma, il soprano Silvia Pantani molto pregevole nel suo pur breve intervento, e gli ottimi Alessandro Martinello, la Spia, Pedro Carrillo, il Ladro, Michele Pierleoni, la Tigre. Un prezioso cammeo quello di Carlo Morini, Capitano dei Marats e suggestiva la voce del Portatore d’ordini, Luis Javier Jiménez Garcia che ripete il bando: “Sian deserte le strade lungo il fiume, deserti i ponti, spento ogni lume“, una delle frasi più intense di tutta l’opera di cui piace pure ricordare il canto dei condannati, una commovente “preghiera” mascagnana.
Mentore del successo il M° Mario Menicagli, direttore d’orchestra e del Teatro Goldoni, che ha guidato la lodevolissima Orchestra della Toscana, solitamente impegnata in ben altro repertorio, con notevole sagacia ed entusiasmo. Una lettura appassionante, senza alcun calo di tensione narrativa di questo grande affresco anche corale, particolarmente nel primo atto dove il coro del Teatro Goldoni, guidato da Maurizio Preziosi, è assurto al ruolo di autentico protagonista, anticipando (siamo pur sempre nel 1921!) una forza ed una incisività negli inteventi di cui certamente Puccini tenne conto nella sua posteriore ed incompiuta Turandot. Menicagli ha pure accompagnato idealmente il palcoscenico in un’operazione dove tracimare e sommergere le voci è un pericolo costante. E ciò in considerazione dell’esiguo numero di prove (come sempre nei teatri di tradizione) e dalle oggettive difficoltà dell’opera, fa gridare al miracolo.
Un “miracolo” è stato pure quello compiuto dalla regista Sarah Schinasi, altro pezzo della memoria toscana, che con un badget presumibilmente ridotto all’osso è riuscita a ricreare un ambiente ed una scena di assoluta modernità, pur nell’ambito della sana e mai troppo lodata tradizione teatrale italiana che ci appartiene. Coadiuvata da uno scenografo e costumista di sperimentata bravura e professionalità, quale è William Orlandi, con il riuscito gioco di luci progettato da Christian Rivero, alla Schinasi è bastato sfruttare in buona parte l’ampiezza e struttura del palcoscenico stesso. Un grande ponte costruito con un’armatura in ferro, pochi elementi scenici ed atrezzo sono bastati a dare luogo ad un’azione dinamica, a cui si sono prestati con entusiasmo gli artisti del coro ed i solisti. I costumi, giocati tutti sui toni del bianco, nero e grigio, in parte hanno riportato le linee dei tempi della rivoluzione, reinterpretati con severità e senza fronzoli, ma soprattutto e con grande intuito ci hanno riproposto le lotte operaie di quel 1921, poi represse dai noti eventi politici che ne seguirono. Immagine dell’innocenza tradita, ma anche della forza delle donne, la bambina in rosso, che poi è una firma riconoscibile anche nel precedente Andrea Chenier della Schinasi, e la prostituta che segue l’Orco e che poi netralizza con il narcotico.
Due immagini forti ed indelebili di uno spettacolo che sarebbe un delitto far arenare qui, sulle sponde della pur bella Livorno, al lato delle sue gloriose fortezze.
Andrea Merli