MILANO: ATTILA – Teatro alla Scala, 11 dicembre 2018

MILANO: ATTILA – Teatro alla Scala, 11 dicembre 2018

ATTILA

Giuseppe Verdi

Direttore Riccardo Chailly
Regia Davide Livermore

Personaggi e Interpreti:

  • Attila Ildar Abdrazakov
  • Odabella Saioa Hernández
  • Ezio George Petean
  • Foresto Fabio Sartori
  • Uldino Francesco Pittari
  • Leone Gianluca Buratto

Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Video D-wok


Teatro alla Scala, 11 dicembre 2018

Diventerai la cantante del secolo, ma in Spagna non se ne accorgeranno”. La profezia della sua Maestra, Montserrat Caballé, si è quasi avverata, nella speranza che a smentirla arrivino presto contratti dai principali teatri spagnoli. Ci si riferisce, chiaramente, a Saioa Hernandez, il primo soprano spagnolo a cui, a memoria d’uomo, è toccata in sorte un’inaugurazione di stagione scaligera; sembra incredibile che questo primato non sia da attribuire alla Caballé che pure fu di casa alla Scala. Si tratta anche in questo caso di un soprano di indubbie qualità, vocali ed artistiche, che personalmente ebbi modo di conoscere in un concerto d’opera a Tenerife, correva il 2010 e si celebrava il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia ai tempi in cui il mentore era Giancarlo Del Monaco, il quale lanciò in quell’occasione due giovani talenti da lui scoperti: il tenore tenirfeno Jorge De Leon e la Hernandez, appunto. Il soprano, dopo una gavetta maturata soprattutto nei teatri nordici, grazie all’acume e lungimiranza di una grande donna di teatro di nome Cristina Ferrari, ci stupì prima con una splendida La Wally e, non più tardi di una anno fa, con una strepitosa Gioconda, sempre al Teatro Municipale di Piacenza e quindi portata nei teatri del circuito emiliano e, fortunatamente, documentata dalla ripresa della RAI TV Canale 5.

Ed ora il trionfo scaligero che, superate le tensioni ed i brividi della “prima”, si riconferma ancora più convinto e saldo alla seconda recita, quella dell’11 dicembre in abbonamento, salutata da – cronometro alla mano – oltre 19 minuti di applausi e grida di entusiasmo. Un ruolo, quello di Odabella, al debutto ed affrontato con grinta, temperamento ed estrema precisione musicale, destinato a crescere, ovviamente, in corso di replica. Anche se, pur confermandone le qualità fuori dal comune, la stessa interessata ha confidato di voler lasciare in futuro: Verdi, si sa, non fu mai tenero specie nel periodo degli “anni di galera” con il soprano – viceversa e risaputamente, amava molto di più i baritoni – e quello di Odabella, con la Lucrezia Contarini de I due Foscari, è forse uno dei più esposti per la scabrosità di un canto di forza fin quasi al parossismo, a cui è richiesta pure agilità, morbidezza e soavità a corrente alterna. La Hernandez con l’ingresso impetuoso, l’apertura del secondo atto trasognato e via via fino allo splendido terzetto, che poi si allarga in quartetto finale, ha segnato una prestazione memorabile.

Ma tutto il cast, tutto lo spettacolo, la prova dell’orchestra e del coro – come sempre affidato alle solerti cure del Maestro Bruno Casoni – la direzione di Riccardo Chailly, sono parsi all’altezza, finalmente, della fama che porta il nome Scala. Il Maestro Chailly sceglie una “tinta” serotina e severa, evita un generico “quarantottismo” (che del resto sarebbe prematuro, visto che l’opera è del 1846!) e sottolinea, seguito in ciò in maniera eccelsa dall’orchestra parsa in forma splendida, un certo nostalgico decadentismo. Anche nei momenti di presunta euforia, vedi la festa “barbarica” del terzo atto. Dove poi dimostra la sua grande professionalità è nel sostenere i cantanti e nell’agevolare loro il canto, anche quando dilata i tempi esacerbando il lirismo, per esempio la prima aria del tenore nel prologo e quella che apre il primo atto, affidata al soprano. Struggente il bellissimo preludio, in assoluto una delle pagine più ispirate di Verdi, e intenso il sogno premonitore di Attila, quasi che al bianco e nero prevalente in scena si sommasse una luce dettata dalla sola musica. All’edizione critica di Helen M. Greenwald dell’University of Chicago, si sono aggiunte le battute scritte da Rossini per introdurre il terzetto del terzo atto e l’inedita aria di Foresto, sempre al terzo atto, composta da Verdi per la “prima” milanese ed affidata al “tenore della bella morte” Napoleone Moriani.

Altra prestazione gloriosa quella di Fabio Sartori, Foresto. La ricchezza degli armonici, il timbro brunito e l’abilità del fraseggio compensano di gran lunga la figura non proprio felice. La suadenza nel canto a fior di labbra, la capacità di smorzare e rinforzare il suono, hanno conquistato soprattutto nella aria del terzo atto, sottolineata da un’ovazione. Applausi a scena aperta ed addirittura richieste di bis dopo l’aria e cabaletta di Attila nel secondo atto: e non era da meno la prova straordinaria di Ildar Abdrazakov, un Attila insolitamente umano, cordiale e anche innamorato, molto meno rude dell’immagine convenzionale che lo descrive qual “flagello di Dio”. Il bel colore, la nobiltà del canto, la morbidezza del suono, scuro e vellutato, la facilità in acuto sono le sue armi vincenti; esce con onore pure dalla zona grave, non possedendo profondità abissali, in virtù di un’intelligenza musicale superiore. Dal punto di vista attoriale, infine, se ne rimane sedotti sin dal suo imponente ingresso a cavallo. Non meno applaudito il baritono rumeno George Petean, dotato di una voce di rara bellezza e che canta con gusto antico – ed è nota di merito – completo su tutta l’estensione e che pure scenicamente è perfettamente aderente alle richieste della regia. Detto infine del prezioso apporto dei due ruoli di fianco, quello di Uldino affidato al tenore Francesco Pittari dal bel timbro e ottima proiezione e quello del Papa Leone (in locandina spacciato per “vecchio romano”) nella autorevole e sonora voce dell’ottimo basso Gianluca Buratto, rimane buona ultimo lo spettacolo.

Visto in TV, dal vivo suscita forse qualche perplessità, poiché il pur bravo e anche un bel po’ scaltro Davide Livermore se pecca, pecca per eccesso, come già nel precedente Don Pasquale. Intendiamoci, è un autentico “Kolosal” dai ritmi cinematografici e anche dalle tante citazioni, alcune chiarissime, che vanno dal neorealismo di Rossellini di “Roma città aperta”, al “Portiere di notte” della Cavani o piuttosto alla “Caduta degli dei” di Visconti. Uno spettacolone in tema e tono con una “prima” alla Scala, destinato a piacere se non a tutti alla stragrande maggioranza. L’uso di un apparato scenico corporeo semovente e delle proiezioni Led al massimo livello tecnologico (scene di Giò Forma, costumi di Gianluca Falaschi, mai troppo lodati, luci di Antonio Castro e video D-Work) rendono in assoluto lo spettacolo ammirevole e coinvolgente anche per il “messaggio” di un mondo sempre in guerra. Il conflitto tra due eserciti in cui a pagare è sempre il popolo. Dove il “cattivo” possiede un rigore morale mentre i “buoni” sono mossi dall’interesse o per pulsioni incontrollate di vendetta e rivalsa. Insomma, un mondo sempre attuale come, del resto, attualissimo è sempre Verdi.

Andrea Merli

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