GENOVA: Lucia di Lammermoor, 5 giugno 2018

GENOVA: Lucia di Lammermoor, 5 giugno 2018

Lucia di Lammermoor

Dramma tragico in due parti e tre atti di Salvatore Cammarano

Musica di Gaetano Donizetti

 

Direttore Andriy Yurkevych

Regia Lorenzo Mariani

 

 Personaggi e interpreti :

  •  Miss Lucia  Elena Mosuc
  • Sir Edgardo di Ravenswood  Luciano Ganci 
  • Lord Enrico Ashton Federico Longhi 
  • Raimondo Bidebent  Alessio Cacciamani
  • Lord Arturo Bucklaw Blagoj Nacoski
  • Alisa Carlotta Vichi
  • Normanno Didier Pieri

Orchestra del Teatro Carlo Felice

Coro del Teatro Carlo Felice

Maestro del Coro Franco Sebastiani

Nuovo allestimento in coproduzione Fondazione Teatro Carlo Felice –

Fondazione Teatro Comunale di Bologna– ABAO-OLBE di Bilbao


Un allestimento, quello di questa Lucia di Lammermoor messa in scena per il “Divo” Andrea Bocelli al Teatro Carlo Felice di Genova, che proviene da Bologna, dove si vide e censurò la scorsa stagione e su cui non vale la pena di infierire. Sinceramente l’avevo impiccionescamente rimosso (e sì che pure là il cast era di tutto rispetto, contando con Irina Lungu, Stefan Pop e Markus Werba, tra gli altri) ma mi è bastata l’apparizione di Lucia impiccata e pendente da una corda all’aprir di sipario per riportarmela alla memoria. Tra le “amenità” di una regia che vorrebbe essere provocatoria, il tentato stupro della protagonista da parte del fratello Enrico, interrotto da Bidebent giunto con un tempismo lodevole. Scena (unica) di Maurizio Balò, costumi bruttarelli di Silvia Aymonino (d’accordo, gli scozzesi in kilt, però bisognerebbe insegnare ad interpreti e coristi a sedersi adeguatamente) vagamente anni Trenta dello scorso secolo, video proiezioni di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilli (in bianco e nero e non prive di una certa suggestione) luci, quasi sempre di taglio o buio, di Linus Fallbom, regia di Lorenzo Mariani.

Scartato con intenzione l’ascolto del primo cast, l’interesse nella compagnia di canto era altissimo. Innanzitutto per il debutto nella parte di Edgardo di un tenore che si segue con particolare interesse e che si sta guadagnando una posizione di spicco sul panorama internazionale: Luciano Ganci. Voce salda e piena, dal bel timbro maschio, facile e squillante in acuto, Ganci ci riporta ad una tradizione tutta latina e italiana, che dista anni luce dal manierismo sdolcinato con cui ora si tende a risolvere la parte. Qui si ritorna indietro ai tempi del giovane José Carreras, di Gianni Raimondi e del primo Giuseppe Di Stefano. Un bel lirico che, intuisci ed in pratica lo fa, può passare agevolmente a Manrico ed a ruoli verdiani, ma che di Donizetti possiede piena coscienza stilistica e quindi canta morbido, addolcisce e raccoglie il suono, sfoggia un bel legato e, quando ci vogliono, tira fuori le… palle! La fatidica scena della diffida, che chiude il secondo atto, acquista teatralmente e musicalmente un valore eccezionale e, lo confesso, si è avuto il “brivido alla schiena”: sensazione sempre più rara da provare ai nostri magri giorni. A riprova, dunque, che le voci ci sono, eccome se ci sono! La scena finale lo vedo dominare perfettamente l’aspro passaggio nella frase “Oh bell’alma innamorata”, che molti affrontano con cautela  inciampando spesso clamorosamente. Benissimo il recitativo “Tombe degli avi miei” e molto bene l’aria “Fra poco a me ricovero” dove, in futuro, potrà affinare ulteriormente colori ed emozioni. Ma già così, averne! Trionfo con fichiesta di bis, ovviamente non concesso.

Sorpresa tutta impiccionesca quella che ha riservato lo stupefacente baritono Federico Longhi che, buon per lui, è impegnato quasi sempre all’estero, specie in area tedesca. La voce non gode del velluto di un Bastianini, per intenderci, ma il Longhi, oltre a sfoggiare un timbro autenticamente baritonale che ricorda in certa misura quello di Carlo Tagliabue per completezza ed autorità, canta assai bene, ma proprio tanto bene. Emissione perfetta, salita facile in acuto e una coscienza interpretativa, sia nello specifico canto donizettiano che nella resa del personaggio (a dispetto della risibile regia, che ha lasciato di stucco più di uno) massime chi come il sottoscritto lo ascoltava per la prima volta.

Con due elementi di tal fatta, ha stupito l’uso delle forbici in partitura: il finale secondo praticamente monco nella stretta, risolta come negli anni Cinquanta e cioè settant’anni fa, e l’omissione per intero della scena della torre ad inizio terzo atto. Intendiamoci, di quella pagina personalmente non sento l’urgenza, ma è ormai prassi eseguirla. Poi, ci sono arrivato da solo: con ogni probabilità i tagli sono stati prudentemente imposti per agevolare il primo cast… Infatti, era riaperta l’aria di Raimondo, il bravo e giovane e promettente basso Alessio Cacciamani, e pure la cabaletta di Enrico era completa di pertichino di solisti e coro. “A pensar mal se fa pecà, ma s’induvina” saggio detto lombardo.

Il cast è parso adeguato: ottima Alisa il mezzosoprano Carlotta Vichi, ben presente pure nei concertati, lo spavaldo e baldanzoso Normanno era il tenore Didier Pieri, dalla voce tutta bene in avanti ed il solido “sposino”, che in realtà è una stanga d‘uomo, cantato con eleganza dal tenore macedone Blagoj Nacoski ormai italiano a tutti gli effetti.

Ho lasciato buona ultima la vera trionfatrice della serata: Elena Mosuc. La Mosuc la seguo dai tempi ormai remoti di una sua Lucia di Lammermoor a Salonicco, diretta da Francesco Maria Colombo e per la regia di Renata Scotto, la quale mi trasse da parte e mi avvertì: “Sentirà una ragazza molto brava e promettente” e ciò, detto da una delle massime Lucie del dopo-Callas, equivale ad una laurea “honoris causa“. Ora, a distanza di anni e affrontando un repertorio molto oneroso (recentemente Norma a Muscat e Anna Bolena al Teatro Filarmonico di Verona) uno potrebbe ragionevolmente pensare che questo repertorio da “lirico leggero” le venga ormai un po’ stretto. Niente di più lontano dalla realtà. La Mosuc, che possiede una tecnica ferratissima a prova di bomba, sa alleggerire, smorzare  e girare i suoni a suo e nostro piacimento. Punta sull’acuto di forza come su quello preso in pianissimo, fraseggia e dice con una sensibilità coinvolgente. Rende il personaggio, che la regia vuole accanitamente tabagista, con una credibilità scenica, confortata dalla totale aderenza musicale e vocale. Al di là della prodezza del Fa sovracuto che letteralmente ha sparato, tenendolo con non chalance alla fine del duetto “Verranno a te sull’aure” e chiusura del primo atto, e dei vari Mi bemolle sparsi a piene mani, cioè polmoni, come fossero petali di rosa imbevuti di Arpege, quel grado di incosciente follia, senza la quale una diva che si rispetti non sarebbe tale, che accompagna tutta la sua performance, è impagabile e le ha decretato una meritatissima standing ovation alla fine.

Del direttore, Andriy Yurkevych, ottimo accompagnatore sebbene con qualche dinamica in eccesso, si è in parte detto riguardo ai tagli; una lettura efficace e condivisibile. Bene l’orchestra e benissimo pure il coro, istruito da Franco Sebastiani. La recita ultima era aperta alle scuole, e dunque il Carlo Felice era invaso da festatnti ragazzi che, nell’insieme, hanno mantenuto un comportamenteo educato e hanno manifestato tutto il loro entusiasmo. Uno spettacolo nello spettacolo.

Andrea Merli

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