Novara, Teatro Coccia: la Bohéme 12 febbraio 2016
LA BOHÈME
Opera in quattro atti
Musica di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, da “Scenès de la vie de Bohème” di H. Murger
Prima rappresentazione: Torino, Teatro Regio, 1 febbraio 1896
Direttore: Nicola Paszkowsky
Regia e ideazione scenica: Cristina Mazzavillani Muti
Assistente alla regia e direzione di scena: Grazia Martelli
Personaggi e Interpreti:
Mimì: Benedetta Torre
Musetta: Maria Mudryak
Rodolfo: Matteo Falcier
Marcello: Matias Tosi
Schaunard: Daniel Giulianini
Colline: Luca Dall’Amico
Benoit: Giorgio Trucco
Alcindoro: Graziano Dallavalle
Parpignol: Ivan Merlo
Mimi: Carlo Gambaro, Alberto Lazzarini
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Maestro del coro: Corrado Casati
fotografia: Mario Finotti
Coproduzione Ravenna Festival, Teatro Alighieri Di Ravenna, Teatro Nazionale Di Vilnius, Fondazione Teatri Di Piacenza, Fondazione Teatro Coccia Di Novara
Approda al Teatro Coccia di Novara La Bohéme allestita in coproduzione con i teatri Alighieri di Ravenna, dove è già andata in scena, il Teatro Nazionale di Vilnius e la Fondazione Teatri di Piacenza. Un allestimento “formato esportazione” costituito da poche e scarne quinte scorrevoli, da una scalinata sul fondo e da una pedana in proscenio: di fatto nessuno firma le scene, che appunto non esistono, bensì la regia e ideazione scenica recano la prestigiosa firma di Cristina Mazzavillani Muti, la quale non è nuova alla realizzazione di illusioni ottiche, mediante proiezioni, che suppliscono ad una corporeità ingombrante. Ben tre, dunque, i responsabili video che prendono posto in rilievo in locandina: Vincent Longuemare, Light Designer, David Loom, Visual Designer e Davide Broccoli, Video Operator … la “e” ce la risparmiamo, poiché l’inglese, ormai, è la regola; i costumi, invece, li ha creati Alessandro Lai.
Viene subito da dire, parafrasando Shakespeare, tanta proiezione per nulla: un nulla registico, poiché la scena è vuota in piena vigilia di natale al parigino Quartier Latino. Se ne deduce che a Momus deve andar male, visto che gli unici avventori sono la brigata dei quattro squattrinati coinquilini, cui si somma Mimì e quindi Alcindoro e Musetta, la quale civetta più con Parpignol – l’attore mimo Ivan Merlo: i giocattoli li “annuncia” un signore in bombetta, il tenore Roberto Toscano – anziché con Marcello. Mimì sopraggiunge scalza nella neve alla Barriera D’Enfer al terzo atto. Questo sì, sotto una sdrucita coperta, indossa un elegantissimo abito da sera: dono del Viscontino a cui fa gli occhi di triglia? Chissà. Pure Musetta, sotto la neve che fiocca con insistenza –sia nella proiezione che in polvere dal soffitto- è completamente sbracciata ed esibisce un ampio e generoso decolté mentre litiga con Marcello.
Le proiezioni, infine, prediligendo dei motivi pseudo impressionisti e colori violacei, hanno portato alla memoria impiccionesca i vetrini dei preparati istologici colorati col blu di metilene, osservati e studiati al microscopio ai tempi trascorsi del corso di laurea in medicina e chirurgia in quel di Trieste. Se qualche effetto “al chiaro di luna” può anche risultare a tratti suggestivo, predomina il buio pesto, a mala pena sfiorato da luce radente. Una sorta di “occhio magico” si apre sullo sfondo e lascia intravvedere a tratti un cielo in cui scorrono nuvole leggere e dove, pure, si materializza un mazzetto di anemoni: i fiori ricamati dalla povera fioraia a tela o a seta, in casa e fuori… ma non dovrebbero essere gigli e rose? Insomma ed infine, uno spettacolo vecchio e inconsistente per la regia e deludente per la parte visiva.
La parte musicale non è che brillasse eccessivamente. Iniziando dall’importata orchestra giovanile “Luigi Cherubini”, se si paragona alla prestazione assai brillante della locale del Conservatorio appena udita nel felicissimo precedente Viaggio a Reims, e la direzione del pur valente Nicola Paszkowski, braccio destro di Muti e con un curriculum impressionante alle spalle, non ha illuminato granché lo spartito, indugiando in tempi a volte al limite della sonnolenza, mancando pure di precisione negli attacchi. Modesta la prestazione del coro di Piacenza, sparpagliato malamente in scena, che invece abbiamo più volte apprezzato, e tanto, sotto la direzione del pur valido Maestro Corrado Casati. Bene il coro delle voci bianche, alcune talmente sviluppate fisicamente da indurre Marcello a corteggiarle scambiandole per le “donnine allegre” previste nel testo.
Annunciata indisposta, la pur fisicamente deliziosa e fragile Mimì del soprano Benedetta Torre va attesa in altra prova. Si spera e c’è da augurarle che i suoni fissi, le note calanti esibite in un penoso “crescendo” in corso d’opera siano, appunto, imputabili allo stato influenzale. Matteo Falcier, tenore di cui da tempo si apprezza l’onesto percorso in ruoli di carattere e di fianco sempre più impegnativi, quale Rodolfo è messo a dura prova da una scena totalmente aperta e dal fatto che lo si sia posto spesso a cantare in fondo scena. La voce c’è, possiede pure uno squillante Do acuto ben tenuto durante la fatidica “speranza” nella “Gelida manina”, ma il colore e la polpa lo fanno ritenere più adatto, almeno per ora, a ruoli più leggeri: si pensa ad un Nemorino in cui potrebbe emergere in tutta la sua potenzialità e freschezza, scenica e vocale. E’ piaciuta, tanto e a tutti per la decisa vocalità e per l‘affascinante presenza scenica, il soprano Maria Mudryak, Musetta di cui si era già scritto meraviglie quando prese parte alla compagnia di Gianmaria Aliverta, debuttando lo stesso ruolo al milanese Teatro Rosetum. Di salda professionalità e buona resa scenica il Colline intonato da Luca Dell’Amico, gratificato da un generoso e prolungato applauso a scena aperta dopo la “Vecchia zimarra”. Bene il Benoit, padrone di casa, di Giorgio Trucco e benissimo l’Alcindoro del baritono Graziano Dallavalle.
Restano il Marcello del baritono argentino bonariense Matias Tosi e lo Schaunard del basso baritono Daniel Giulianini. Il primo sonoro, ma con un’emissione che procura anche suoni sgraziati e, quel che è peggio, con un’intonazione periclitante; il secondo più a fuoco musicalmente, ma con il pedale spesso spinto a forzare il suono inficiando un colore che si intuisce interessante. Entrambi con un curriculum ed un futuro ricco di impegni da far paura. Speriamo abbiano pure il tempo di studiare e di aggiustare il tiro di voci altrimenti alquanto allo sbaraglio.
L’accoglienza, va detto, è stata calorosa ed il pubblico si è ritirato apparentemente soddisfatto. Alla fin fine è ciò che conta realmente, molto più di qualsiasi riflessione impiccionesca!
Andrea Merli