Teatro del Giglio: LA VEDOVA ALLEGRA – Franz Lehar  6-7 Febbraio 2016

Teatro del Giglio: LA VEDOVA ALLEGRA – Franz Lehar 6-7 Febbraio 2016

La vedova allegra

LTL OperaStudio – Premio Abbiati 2013 categoria “Migliore iniziativa”

Operetta in tre atti su libretto di Viktor Léon e Leo Stein, dalla commedia “L’Attaché d’ambassade” di Henri Meilhac
musica di Franz Lehár
versione italiana di Ferdinando Fontana
Sugarmusic SpA – Edizioni Suvini Zerboni, rappresentante per l’Italia

La scelta degli interpreti è il frutto dei laboratori del progetto LTL Opera Studio 2015

Direttore: Nicola Paszkowski
Regia: Fabio Sparvoli

Personaggi e Interpreti:

Mirko Zeta: Carmine Monaco (6 e 7 febbr.)
Valencienne: Marika Colasanto (6 febbr.) – Alessandra Della Croce (7 febbr.)
Danilo Danilowitsch: Giuseppe Raimondo (6 febbr.) – Ricardo Crampton (7 febbr.)
Hanna Glawari: Maria Radoeva (6 febbr.) – Anta Jankovska (7 febbr.)
Camille de Rossillon: Christian Collia (6 febbr.) – Yasushi Watanabe (7 febbr.)
Cascada: Stefano Marchisio (6 e 7 febbr.)
Raoul de St-Brioche: Vasyl Solodkyy (6 febbr.) – Marco Miglietta (7 febbr.)
Bogdanowitsch: Francesco Napoleoni (6 febbr.) – Federico Bulletti (7 febbr.)
Sylviane: Domitilla Lai (6 febbr.) – Maria Grazia Tringale (7 febbr.)
Kromow: Tommaso Quanilli (6 e 7 febbr.)
Olga: Teresa Gargano (6 febbr.) – Donatella De Luca (7 febbr.)
Pritschitsch: Alfonso Franco (6 febbr.) – Artem Tarasenko (7 febbr.)
Praskowia: Alessandra Masini (6 febbr.) – Giulia Perusi (7 febbr.)
Njegus: Mario Brancaccio (6 e 7 febbr.)

Coreografia: Alessandra Panzavolta
Scene: Giuliano Spinelli
Luci: Vinicio Cheli
Costumi: Irene Monti

OGI Orchestra Giovanile Italiana
Ensemble vocale del Progetto LTL Opera Studio

Nuovo allestimento del Teatro del Giglio di Lucca
Coproduzione Teatro del Giglio di Lucca, Teatro Goldoni di Livorno, Teatro di Pisa, Teatro Coccia di Novara

Vedova_a-1Il Progetto Opera Studio che coinvolge i teatri di Lucca, Livorno e Pisa e che prevede pure, una puntata nella stagione 2017 al Teatro Coccia di Novara, ha assunto quest’anno il considerevole sforzo di produrre nientemeno che La vedova allegra, capolavoro indiscusso del genere operettistico. Audace intento, se affidato a giovani talenti scelti tramite apposite audizioni e, teoricamente, idonei all’impari sforzo, che poi è quello di mettere assieme all’arte del belcanto – e la scrittura di Lehar in quanto a difficoltà e levigatezza non è meno ostica di quella mozartiana, apparentemente semplice, naturale e proprio perciò esigente di tecnica ed emissione curata l’una e ferratissima l’altra – con la recitazione, che impone al cantante lirico un passaggio di posizione dei suoni da quello impostato a quello spontaneo e più grave del testo parlato e, buona ultima, ma non trascurabile, la danza.
Insomma, per affrontare l’operetta s’ha da essere artisti completi, a tutto tondo. E dunque i “principianti” avrebbero la necessità di essere accostati da veterani, magari anche solo in veste di docente e non necessariamente – ma non sarebbe un di più – in palcoscenico, che li preparassero alla peculiare arte del porgere un canto che deve essere sì, impostato, ma nel “melodramma” e cioè quel momento in cui si recita sulla musica, deve cedere ad un parlato che va dosato in tempi musicali e con inflessioni non lasciate al caso. Pure i tempi, le inflessioni nella recitazione, richiedono una preparazione specifica che non si può dare per scontata in chi non possiede il mestiere del teatro “leggero”, i ritmi ed i tempi che contraddistinguono, oltre che la musica, un ordito drammatico in cui si deve sempre tener presente la reazione del pubblico, che va coinvolto, reso complice e partecipe di uno spettacolo in cui l’applauso dopo una battuta comica, la risata dopo una gag anche solo accennata dalla mimica degli attori cantanti, richiedono l’attimo fuggente, che può durare secondi e spesso minuti, senza il quale il tutto si brucia senza produrre fiamma.
VedovaAllegra_Maria-Radoeva-Hanna-Glawari-foto-Lorenzo-Breschi-256x384L’operetta, infine, proprio per la natura evanescente della sua sostanza, per la consapevole e rincorsa inconsistenza della drammaturgia, spesso ridotta ad un pretesto – nella Vedova una frase scritta su un ventaglio poi perso ed infine ritrovato, ma dalla persona sbagliata – per la sua insita fragilità che, per altro, ne costituisce l’essenza e la ragione d’esistere, se affidata a mani inesperte finisce in frantumi.
Con questa produzione s’è rischiato molto. Iniziando dalla revisione del testo cantato, che si riduce a inconsistenti modifiche e che, togliendo l’antico aroma di una traduzione seppur datata assai nota e, comunque, efficiente, non solo nulla aggiunge, ma spesso è fuori stile e luogo.
Affidare la regia a Fabio Sparvoli, che pure si ricorda per la bellissima produzione della precedente Napoli Milionaria, che lavora sottraendo la parte comica, negando quella danzata e riducendo tutti ad un ammasso di marionette nei concertati, è parsa pure un’occasione mancata. Se è pur vero che l’operetta, e la Vedova in specie, come recita la nota che egli ha firmato sul programma di sala, “raggiunge il modello di una perfetta ambiguità sentimentale” nella sua “spensierata apparenza” a mio modesto avviso non si “annida la prefigurazione di una fine” e men che meno, e cito ancora “una radiosa vigilia di morte”. Questione di punti di vista. Di fatto, ne è risultata una Vedova piuttosto lugubre, che rifugge il folklore, seppure quello inventato dell’inesistente Pontevedro, ma anche la follia scanzonata del can can Chez Maxim, anche per l’uso di una scena bella, corporea e giratoria, ma monolitica, ingombrante che di fatto ha reso impossibili i benché minimi movimenti di danza e delle masse, il più delle volte immobilizzati nel fondo e sulle scale: la firma Giuliano Spinelli. I costumi creati da Irene Monti sono eleganti, specie quelli della Vedova, ma le grisettes paiono piuttosto delle damigelle inglesi primo Ottocento, uscite da una novella della Austin e pronte a sorseggiare quel the che, del tutto incomprensibilmente, si beve durante il quintetto del Pavillon, quando le coppie si scombinano e dovrebbe regnare, anche in scena, una certa confusione e non certo l’impassibilità. Le luci di Vinicio Celi non aiutano e la coreografa Alessandra Panzavolta, tarpata nella sua innegabile esperienza, fa quello che può o, forse, le lasciano fare.
VedovaAllegra_a-dx-Maria-Radoeva-Hanna-Glawari-foto-Lorenzo-BreschiDal podio Nicola Paszkowski, a capo della non proprio irreprensibile OGI Orchestra Giovanile Italiana colpevole di qualche sbavatura anche nel settore degli archi, ha impresso un piglio quarantottesco forse più consono ad un Verdi “di galera” che alle nuances vaporose di Lehar, ma ha condotto tutto sommato in porto una compagine nella sua immaturità, piuttosto omogenea. Delle due Glavari, intese in due recite successive, la prima Maria Radoeva soprano dalla voce ben proiettata possiede se non le finezze una certa valente aggressività che la impone anche e soprattutto per la bellezza della figura; la seconda Anta Jankovska, del pari bella e assai procace, ha una maggior tendenza a smorzare e a colorire la frase cantata, ma la voce è di scarso interesse e piuttosto vetrosa nell’acuto. Brave, entrambe, le due Valencienne: Marika Colasanto, musicalmente adeguata e pure spiritosa in scena, Alessandra Della Croce, vocalmente ben messa e scenicamente assai in ruolo, anche se ad entrambe è stata negata la possibilità di emergere come forse avrebbero potuto nel cancan del terzo atto. Tra i maschietti, si taccia del Danilo tenorile di Giuseppe Raimondo, non annunciato ma evidentemente non in forma, affievolitosi in corso d’opera; il baritono argentino Ricardo Crampton alla bella figura unisce una dizione sui generis, assai latino americana per intenderci, la voce baritonale tende ad andare un po’ indietro in acuto, ma nel complesso ne esce vincente. Tra i due Camillo, vocalmente puntuto e fin troppo squillante Christian Colla, stilisticamente più inquadrato il tenore giapponese Yasushi Watanabe. Ottimo il Cascada, casca morto, intonato da Stefano Marchisio, sufficienti entrambi i Saint Brioche, nell’ordine Vasyl Solodkyy e Marco Miglietta. Tra i “maschiacci”, simpaticamente meridionale e vocalmente rustico il sonoro Barone di Carmine Monaco e assai godibile il Njegus dell’attore Mario Brancaccio che avrebbe meritato più spazio. Negato il bis del Settimino “E’ scabroso le donne studiar”, richiesto a viva voce ed insistentemente e pure la passerella finale, che solitamente sottolinea ed incalza gli applausi, invero scroscianti e generosi a Lucca, pure han fatto la loro bella figura gli addetti di ambasciata: Francesco Napoleoni e Federico Bulletti, Bogdanovich, Alfonso Franco e Artem Tarasenko, Pritschitsch e il Kromow di Tommaso Quanilli, inspiegabilmente recitato con accento veneto. Brave pure le relative e fedifraghe mogli, Domitilla Lai e Maria Grazia Tringale, Sylviane, Teresa Gargano e Donatella De Luca, Olga e Alessandra Masini e Giulia Pertusi (questa simpaticissima) Praskowia.
Successo, si è detto, e con punte di trionfo: ed è che la Vedova, comunque la si presenti, è innaffondabile!

Andrea Merli

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