Il trionfo del Tempo e del Disinganno – Teatro alla Scala – 3 Febbraio 2016
Il trionfo del Tempo e del Disinganno
Oratorio in due parti (1707)
di GEORG FRIEDRICH HÄNDEL
Libretto di Benedetto Pamphilj
Direttore: Diego Fasolis
Regia: Jürgen Flimm e Gudrun Hartman
Personaggi e Interpreti:
- Bellezza: Martina Janková
- Piacere: Lucia Cirillo
- Disinganno: Sara Mingardo
- Tempo: Leonardo Cortellazzi
- Scene: Erich Wonder
- Costumi: Florence Von Gerkan
- Coreografia: Catharina Lühr
- Lighting designer: Martina Gebhardt
- Luci riprese da: Hans-Rudolf Kunz
ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA SU STRUMENTI STORICI
in collaborazione con
“I BAROCCHISTI” DELLA RSI – RADIOTELEVISIONE SVIZZERA
Produzione Opernhaus di Zurigo e Staatsoper di Berlino
IL TRIONFO DEL TEMPO E DEL DISINGANNO – Georg Friederich Handel
Il primo di infiniti rimpianti, nell’assitere alla terza recita dell’oratorio Il trionfo del tempo e del disinganno (Roma 1707) di Georg Friederich Handel su libretto del Cardinale Benedetto Pamphilij, è rivolto alla irrimediabilmente persa Piccola Scala, sede ideale per questo tipo di rappresentazioni tra gli anni 50 ed i 90 dello scorso secolo e che “impiccionescamente” ebbi la fortuna di frequentare per spettacoli memorabili.
Ora, in una sala troppo ampia e tristemente riempita a metà, nonostante alla recita fuori abbonamento del 3 febbraio i biglietti di platea fossero proposti a soli dieci euro, il capolavoro giovanile di Handel è stato accolto da un successo concentrato alla fine, salvo le poche e timide “sculacciate” che ha ricevuto nel secondo atto l’aria intonata dal Piacere “Lascia la spina”, quella che con nuovo testo diventerà la celeberrima aria di Almirena “Lascia ch’io pianga” nel Rinaldò che segnò l’esordio londinese dell’Autore nel 1711.
La produzione arriva da Berlino, dopo essere passata da Zurigo, ed è firmata congiuntamente da Jurgen Flimm e Gudrun Hartmann. La scena di Erich Wonder ricrea per l’occasione uno spazio che si rifà ad una Brasserie parigina, “La coupole” aperta nel 1927; gli elegantissimi costumi recano la firma di Florence Von Gerkan, le luci si debbono a Martin Gebhardt ed i movimenti della numerosa e prevaricante figurazione, alla coreografa Catharina Luhr. E’ proprio l’aspetto visivo a deludere. Faraonico da un lato, per la scena pesantemente corporea ed ingombrante, con tratti avanspettacolistici nella regia – per tutti l’entrata di due marinai che si muovono ritmicamente avvinghiati ad una fanciulla vestita da sposa, la quale a sua volta non esita nel suo candore a palpar loro le chiappe – rappresentando quanto di più trito possa offrire oggi come oggi il “teatro di regia” alla tedesca, la cui novità è sfuggente più del tempo chiamato in causa, visto che lo spettacolo è nato alla Staatsoper im Schiller Theater appena nel 2011.
Tradotto in un forsennato horror vacui, laddove i quattro protagonisti si perdono in una serie infinita di quadrucci che, certo, attraggono e distraggono l’attenzione, ma nulla aggiungono all’azione pretestuosa e sostanzialmente inesistente e, soprattutto, nulla hanno da spartire con lo stile dell‘oratorio, nonostante lo sforzo dichiarato sul programma di sala dalla responsabile della “drammaturgia” Ronny Dietrich che dall’alto della sua introspezione psicologica ritiene il barocco uno “stato depressivo” di cui sarebbe sbagliato replicare in scena il fascino delle immagini evocate dal testo, pur ammettendo che esse vengono riprese in maniera insuperabile dalla musica di Handel.
Si tratta, insomma, di riempire sempre la scena, anche con soluzioni rumorose – per esempio la macchina del vento che sospinge in scena refoli di neve- che disturbano la musica e che mal celano una sostanziale ignoranza del periodo storico che attraversava Roma in quegli anni, dell’erotismo mal celato di queste rappresentazioni dove la nobiltà ecclesiastica sotto le vesti arcadiche sfogava i propri impulsi omosessuali, del veto alle donne di calcar la scena e della presenza dei castrati, della personificazione, durante la “sonata” nella prima parte dell’oratorio, dello stesso Handel nelle vesti di un leggiadro giovinetto seduto all’organo, omaggio del cardinale Panphilij invaghitosi di lui appena 22enne, circondato da uno “stuol di giovanetti erranti” della reggia del Piacere. Il tutto avvilito in una postdatazione fine anni Quaranta, senza una vera e comprensibile spiegazione.
Bocciato lo spettacolo, che pure ha avuto consensi da noi e soprattutto all’estero, anche la parte musicale ci ha rimandato, per molti versi, a quegli anni. E’ stata affidata allo specialista Diego Fasolis, il quale, seduto al cembalo, ha offerto un doppio spettacolo nello spettacolo, redarguendo pure delle ragazze birichine che alla Scala devono essere entrate quasi per caso e che dal palco di proscenio in secondo ordine ne hanno combinate di cotte e di crude: pose per selfies eseguite sbracciandosi con il tablet ed un continuo, rumoroso cicaleccio, al punto che in un principio si pensò facessero parte integrante della regia. Fasolis, al comando di una disciplinata squadra di orchestrali scaligeri dotata di strumenti “storici” ha fatto del suo meglio e la sua direzione è parsa, sia per colori che per atmosfere, quanto meno adeguata e precisa.
I quattro solisti avrebbero forse trovato giovamento in uno spazio più raccolto: non hanno superato quella che si suole eufemisticamente definire aurea mediocritas. Inutile evocare il fantasma della Bartoli, che certo avrebbe richiamato un folto pubblico e fors’anche qualche inevitabile contestatore, come già nell’ultimo suo concerto in Scala. Di certo Lucia Cirillo, soprano compagna nella vita di Fasolis, non ne possiede la trascinante personalità ed indiscutibile individualità. Compita bene, è musicale, ma a “stupire”, come si dovrebbe con il barocco, non ci riesce. Pallida, e non solo di carnagione, per via di una qualità vocale che pur senza smagliature sembra troppo flebile, la Bellezza del soprano Martina Jankova; a sua difesa, doti di buona interprete emerse in specie nell’ultima meravigliosa pagina con cui si conclude l’oratorio “Tu del Ciel ministro eletto” che la vede stesa in terra, unica intuizione registica degna di nota, quale novella Suor Angelica nel prendere i voti. Le note migliori sono pervenute da Sara Mingardo, mezzosoprano dalla voce omogenea e ben dosata: perfetta quale Disinganno, seppure non favorita dal costume e dalla caratterizzazione androgina. Discreto il Tempo intonato da Leonardo Cortellazzi che, però, si è ascoltato in occasioni migliori ed in ruoli che ne hanno messo maggiormente in risalto la decisa e tenorile vocalità, non eccezionalmente virtuosa né messa bene a fuoco nella vertiginosa vocalizzazione.
Andrea Merli
“Lascia la spina”
“Tu del Ciel”