BARCELLONA: Tosca – Giacomo Puccini, 17 gennaio 2023

BARCELLONA: Tosca – Giacomo Puccini, 17 gennaio 2023

Tosca

opera lirica in tre atti

di Giacomo Puccini

su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica

Prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900


Direttore Giacomo Sagripanti
Regia teatrale Rafael R.Villalobos

Personaggi e Interpreti:

  • Floria Tosca Sondra Radvanosky
  • Mario Cavaradossi Vittorio Grigòlo
  • Barone Scarpia Zelico Lucic
  • Sagrestano Jonathan Lemalù
  • Spoletta Moises Marin
  • Sciarrone Manel Esteve
  • Carceriere Milan Perišic
  • Pastorello Hugo Bolívar

Scenografia Emanuele Sinisi
Disegno dei costumi Rafael R.Villalobos
Luci Filippo Ramos
Immagini Santiago Ydañez

CoproduzioneThéâtre Royal de la Monnaie, Gran Teatre del Liceu, Teatro de la Maestranza e Salas del Arenal e Opéra Orchestre National Montpellier

Coro del Gran Teatre del Liceu (Pablo Assante, direttore)
Orchestra Sinfonica del Gran Teatre del Liceu

 

 

 

Gran Teatre del Liceu, 17 gennaio 2023


Con questa ultima, per me che così ne totalizzo quattro, Tosca chiudo la rassegna delle 15 recite (16 con la prova “pregenerale” che ha visto impegnato il primo cast e aperta al pubblico) tutt’ora in scena al Gran Teatre del Liceu: repliche ancora, con alternanza di cast, il 18, 20 e 21 gennaio.

Attesissima dagli “aficionados” locali e meta di pellegrinaggio per molti suoi fans, alcuni provenienti anche dall’Italia, Sondra Radvanosky, qui molto amata e “di casa”, la quale inizia pure le prove del prossimo Macbeth che andrà in scena, sempre nel teatro delle Ramblas, dal 16 di febbraio al 3 di marzo. Come si dice in Spagna, “ha sido llegar y besar el santo”. Trionfo annunciato, compensato dal bis, concesso a furor di pubblico, del “Vissi d’arte” e commozione alla ribalta finale. Il 53enne soprano dell’Illinois ha molte frecce ancora nella faretra: una voce penetrante e di volume notevole, un temperamento leonino che il ruolo praticamente impone, la lunga esperienza con la parte e la pratica teatrale, che le hanno permesso di inserirsi in questa discussa e discutibile produzione imponendo la “sua” Floria Tosca in assenza del regista; scantonando tutte le incongruenze e stupidità imposte da una visione distorta e falsata del personaggio. Iniziando col guardarsi bene dal ridere sguaiatamente, spostando tra l’altro la voce, evitando isterie e cercando di rendere Floria il più aderente possibile alla drammaturgia originale. Ciò le ha giovato notevolmente, proprio nella fatidica aria che ha cantato a tre metri di distanza dal figurante nudo steso al suolo e senza che, nella conclusione, le si parasse davanti Scarpia con relativo strappo del rosario che porta al collo (poi sostituito da collare e manette, poiché in questa versione il Barone è più maso che sado!) ergendosi in piedi sola davanti al pubblico che, infatti, ha così risposto con un’interminabile ovazione.

Se è pur vero che l’articolazione della parola a tratti è intubata e che la pur bravissima Sondra ricorre a note di petto, diciamo che ai fini “plateali” ci sta. Per altro gli acuti sono ancora saldissimi, prova ne sia una lama al fulmicotone, e l’interprete sa dosare alla perfezione l’emissione con uso di mezze voci e messe in voce che compensano abbondantemente una lettura assolutamente Verista. Successo, dunque, e meritatissimo.

Vittorio Grigòlo apre bocca e… vince! Qui alla sua terza recita di quattro (replica il 20 sempre con la Radvanosky) ci ha sorpreso per la bellissima prova, scevra dai gigionismi a cui spesso cede per eccesso di… adrenalina. Un canto generoso, aperto e solare, dominato da una ricchezza di armonici straordinaria. Anche lui, dove ha potuto, ha recitato di suo, seppure questo Cavaradossi paga pegno col finto Pasolini, troppo spesso di intralcio e letteralmente tra i piedi, e… meno male! Timbro spavaldo e riconoscibilissimo, già in “Recondita armonia”, in crescendo con trasporto e anche ironia nel primo duettone con Tosca, puntuale in acuto ne “La vita mi costasse”; poi nel secondo atto, ottimo in “Vittoria, vittoria” dove ha “corelleggiato” in quanto a tenuta di acuto e, soprattutto, apprezzabile nel terzo atto con un emozionante “Addio alla vita” e poeticamente innamorato, per sfumature e colori, in “Oh dolci mani”. Lì si capisce se uno sa o non sa effettivamente cantare: Grigòlo sallo. Se ne ricordasse più spesso. Comunque e sebbene le sue due arie non siano state (fortunatamente aggiungo io) interrotte da applausi, festeggiatissimo alla ribalta finale dove si è, strano a dirsi, contenuto nel manifestare il proprio entusiasmo per l’accoglienza.

Zelico Lucic ha ricevuto sonore proteste mescolate agli applausi: sinceramente in questa recita mi è parso molto più a fuoco che nella precedente. Il suo Scarpia, specie in questa distorsione registica, non passerà alla storia, ma il rispetto per l’artista dovrebbe prevalere. Il sospetto è che questa protesta sia stata motivata anche dal fatto che avendo rinunciato Carlos Álvarez alle recite del prossimo Macbeth la direzione del teatro abbia deciso di sostituirlo col baritono serbo. Non di meno si tratterebbe pur sempre di un pregiudizio.

A Giacomo Sagripanti va riconosciuto il merito di aver tenuto imbrigliati due cavalli di razza e scalpitanti, praticamente senza aver quasi provato. Un piccolo incidente di percorso (ma qui sta il bello della diretta) è avvenuto nel secondo atto. La regia impone l’ultimo “Ahimè” di Cavaradossi, che ricordiamolo qui è in scena, a Spoletta o a un figurante (non è chiaro) quasi fosse pure quello un tranello per far crollare psicologicamente Tosca. Sta di fatto che ieri sera non s’è udito e la reazione di Tosca “Nel pozzo … nel giardino” è mancata, perciò la frase di Scarpia “Là è l’Angelotti?” è arrivata … senza la confessione! Un incidente di cui molti non si saranno accorti, viceversa si è apprezzato l’accompagnamento sul canto, con attenzione a non perderli e a sostenere i solisti, senza perciò rinunciare ad una lettura avvincente ed a una bella pulizia orchestrale.

Non si può concludere la cronaca senza citare la “caciara” che ha sollevato, nuovamente, la scenetta di oltre sette minuti di durata che precede l’inizio del secondo atto, in cui il finto Pasolini recita il suo proclama in catalano e poi approccia il finto Pelosi al suono di “Love in Portofino” di Fred Buscaglione. Va sottolineato che quella del 17 gennaio, per la presenza del nuovo soprano, era da considerarsi alla stregua di una “prima”, poiché ha visto il raduno dei loggionisti più combattivi e collaudati. Il primo urlo è stato per protestare contro l’amplificazione del coro, durante il Te Deum fuori scena, davvero insopportabile ai piani alti del teatro poiché gli altoparlanti stanno nascosti all’interno del grande lampadario e dunque lo sfasamento sonoro è totale. Il misero attore ha cercato di alzare la voce, ma è stato letteralmente soffocato e l’unica frase percepita “contro il conformismo” è stata la miccia che ha ulteriormente sollevato gli animi. Praticamente la canzone di Buscaglione non s’è quasi udita e, come nota di colore, va riportato il commento di una signora che provocatoriamente ha chiesto: “Quando sentiremo una canzone di Sarita Montiel?” scatenando, oltre alle grida, l’ilarità del pubblico.

Sinceramente, e pensando alle riprese di questo infelice spettacolo, il mio consiglio spassionato è quello di tagliare, almeno, questo stupido ed insultante preambolo che di Pasolini ricorda il fatto più buio e meno felice di una vita eccezionale.

Andrea Merli

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