La zarzuela, questa sconosciuta.

La zarzuela, questa sconosciuta.

LA GENERALA

 

La zarzuela, questa sconosciuta.

 La zarzuela no es comedia, sino sòlo una fàbula pequena, en que a imitaciòn de Italia, se canta y se representa. Con questa definizione, ove per representa si deve intendere “recita”, Pedro Calderòn de la Barca, intorno alla seconda metà  del XXVII secolo, introdusse un genere teatrale autoctono, anche se dichiaratamente prossimo alla neonata opera italiana. L’etimologia del termine, letteralmente “roveto” in italiano, trova spiegazione nel nome del luogo dove si rappresentavano feste teatrali per amenizzare la corte al seguito dell’Infante Fernando, che di ritorno dalle battute di caccia si riposava nel Palacete de la Zarzuela, costruito all’interno del Real Sitio madrileno in un punto folto di rovi, in lingua castigliana: zarzas.  Si trattò, sin dall’inizio, di un genere misto dove musica e canto si fusero con versi recitati al posto del classico recitativo secco che, anche se in spagnolo, era considerato “noioso”.

In realtà non a Calderòn, ma all’altrettanto illustre Lope de Vega, dobbiamo il testo della prima opera spagnola: “La selva sin amor”, rappresentata nel 1627 e di cui, per altro, non è sopravvissuta la musica, rimasta addirittura orfana dell’autore. Bisogna attendere il 1660 e “La purpura de la rosa”, a tutti gli effetti un’opera e quindi sprovvista della parte in prosa, elemento sostanziale e preponderante nella zarzuela, sempre di Calderòn e rappresentata al Buen Retiro, per imbatterci con un compositore spagnolo: Juan de Hidalgo, arpista della Cappella Reale, assai longevo ed attivo dal 1633 almeno fino al 1680. Il successivo percorso della zarzuela -od opera spagnola che dir si voglia- continua con una sostanziale sudditanza allo stile italiano, ma sfuggendo finalmente all’ambiente nobiliare e diffondendosi nei teatri pubblici. Va citato Josè de Nebra, considerato dai suoi contemporanei il Lope de Vega della musica spagnola; autore fecondo di cui si ricorda la zarzuela: “De los encantos de amor, la mùsica el mayor” del 1725. Alla zarzuela contribuirono compositori di fama europea, ospiti della corte spagnola: è il caso di Luigi Boccherini che nel 1776 firmò “La Clementina”. La zarzuela, come l’opera, si sviluppò anche sotto la forma del sainete (equivalente dell’intermezzo) e della tonadilla, breve atto unico in tutto simile al precedente, ma caratterizzato da maggior numero di personaggi.

Bisogna attendere, comunque, la seconda metà del secolo XIX per assistere all’affermarsi di una scuola nazionale con il recupero di ritmi popolari, per trovare i caratteri della vera zarzuela, quella che riflette soprattutto nei testi la realtà iberica. Nel Teatro della calle de Jovellanos, oggi Teatro Nacional La Zarzuela, e addirittura lottando per imporne il nome, ne furono fautori, tra gli altri, autori quali Joaquin Gaztambide (“Gloria y peluca”, 1850), Emilio Arrieta (sua la popolare “Marina”, trasformata in opera nel 1871 per volontà del tenore Tamberlick che la eseguì al Teatro Real, prima opera cantata in spagnolo!) e, soprattutto, Francisco Asenjo Barbieri, che con “El barberillo de Lavapies” nel 1875 centrò definitivamente il profilo della zarzuela moderna.

La zarzuela ha conosciuto da allora una vita intensa, un’espansione che l’ha portata in breve tempo ad essere identificata come un genere nazionale, ma anche riconosciuto in tutto il mondo latino americano dove il legame con la madre patria, a dispetto della sofferta colonizzazione e delle successiva indipendenza politica, si è sempre mantenuto stretto soprattutto da un punto di vista squisitamente culturale. Un periodo che si può, schematicamente, dividere in tre. L’iniziale, in cui autori quali Rafael Hernando e Cristobal Oudrid, assieme a quelli sopra citati, si vennero progressivamente affrancando dallo stile italiano, che nonostante l’uso di ritmi locali risulta epigono di Rossini, Donizetti e di Verdi, ma contaminato da offenbachiana sarcasticità. Il secondo periodo, idealmente a cavallo dei secoli XIX e XX, è quello più fecondo. Vide la nascita di capolavori assoluti di Ruperto Chapì, Tomas Bretòn e Federico Chueca. Autori, assieme a Manuel Fernandez Caballero e a Josè Serrano, sia di zarzuela grande, divisa in più atti, sia detentori della formula del fortunatissimo genero chico: piccolo per la durata, contenuta solitamente nello spazio di un’ora e strettamente imparentato col sainete per le trame, tranche de vie dell’ambiente madrileno. Venne anche denominato teatro por horas poichè nello stesso teatro -per esempio il celebre Apolo affacciato sulla centralissima Gran Via- se ne eseguivano quattro, una piece dietro l’altra, essendo l’ultima quella di maggior cassetta. L’ambizione di ogni autore era, quindi, quella di vedere “arrivare” la propria creatura alle ore piccole! Col diffondersi a livello popolare la zarzuela, che aveva ereditato la polacca ed il valzer, si appropriò a viva forza del fado portoghese, addirittura della samba e del tango. Più spesso si regionalizzò, sia nelle trame che nei ritmi: la jota aragonese, lo zortiko basco, la mugneira galiziana, la sardana catalana. A farla da padrona fu sempre, comunque, l’Andalusia con i suoi ritmi travolgenti: la seguidilla, il fandango ed il ritmatissimo zapateado; alla tipicizzazione madrilena diede man forte il chotis, contrazione dell’inglese scottish, in buona compagnia col pasacalle e col pasodoble.

Un capitolo a parte meriterebbero, poi, gli autori teatrali, il cui nome non a caso –come nelle operette inglesi di Gilbert- precede sempre quello del compositore. Ci si limita, in questa sede, a citare la coppia formata da Guillermo Perrìn e Miguel Palacios, i quali, alla maniera degli italiani Giacosa ed Illica per Puccini, firmarono molti libretti insieme: tra quelli musicati da Amadeo Vives, oltre a La Generala, ricordiamo L’husar de la guardia, un’altra zarzuela di stampo operettistico. Come indubbiamente è La corte de Faraon, con musica del valenciano Vicente Lleò: operetta scanzonatissima in cui si satirizza, anche sessualmente, l’ambiente egizio reso popolare da Verdi con Aida e che fornì a Carlo Lombardo, indubbiamente il factotum dell’operetta italiana, lo spunto per il celebre “Tango delle manequins” disinvoltamente plagiato nell’operetta Madama di Tebe. Senza il decisivo apporto drammaturgico di questi librettisti, la zarzuela, come genere teatrale, non avrebbe conosciuto la gloria della sua terza e dorata età che corrisponde, grosso modo, alla silver age dell’operetta mitteleuropea.

L’ultimo periodo prese il via con gli anni Venti del secolo scorso. Fu caratterizzato da un sostanziale rinnovamento dei testi e della scrittura musicale, ma si troncò bruscamente per i drammatici eventi della guerra civile (1936-1939) e con la successiva dittatura di Franco. Il quadro di desolazione politico ed economica che afflisse la Spagna, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, non fu certo d’aiuto alla sopravvivenza di un genere ostacolato, per giunta, dal pregiudizio di molti pseudo intellettuali. La colpa non è da ricercarsi solo nell’instaurarsi del regime fascista, ma piuttosto in un progressivo cambiamento d’orientamento nei gusti del pubblico, attratto da altri tipi di spettacolo. Gli insostenibili costi di produzione, specie per le  compagnie private, diedero il colpo finale all’esaurirsi di una vena creativa che, di pari passo, coinvolse anche il mondo dell’operetta. L’abdicazione in favore della commedia musicale e della musica leggera non fece eccezione con i superstiti autori spagnoli, librettisti e compositori, che per sopravvivere dovettero seguire i percorsi lasciati aperti dalla rivista, dal cinema, dalla canzone.

Nondimeno a quell’ultimo ventennio vanno ascritti gli ultimi capitoli, forse quelli oggi più significativi, della zarzuela. Protagonista assoluto ne fu, ancora una volta. Vives colse il successo più clamoroso e duraturo di tutta la sua prolifica attività di compositore con Dona Francisquita, su testi di Federico Romero e Guillermo Fernandez Shaw ai quali si deve anche Luisa Fernanda di Federico Moreno Torroba, andata in scena nel 1932 e che ha trionfalmente debuttato a Milano, al Teatro degli Arcimboldi nel corso della stagione del Teatro alla Scala, contando tra gli interpreti uno strenuo difensore della zarzuela in Placido Domingo. Liberamente tratta da La discreta enamorada di Lope de Vega, questo autentico gioiello lirico, che vide le luci della ribalta il 17 ottobre del 1923 sul prestigioso palcoscenico del Teatro Apolo, recentemente ricostruito, rappresenta tutt’oggi il più sincero e sentito tributo alla città di Madrid. Come avvenne, del resto, con Luisa Fernanda – datata lo stesso anno in cui Schomberg, proprio a Barcellona, concluse il secondo atto di “Moses und Aron”- in cui Moreno Torroba, al pari di Vives per la Francisquita, viene più frequentemente associato. Vives, che così cedette idealmente il testimone al più giovane collega cui spettò, per certi versi, il canto del cigno del genere zarzuelistico, era perfettamente consapevole delle evoluzioni musicali del suo tempo, ma è altrettanto chiaro che, nel momento di dover scrivere per il teatro popolare, sarebbe stata una follia utilizzare i presupposti tecnici e gli impulsi estetici grazie ai quali Berg poté consegnarci il “Wozzeck”. Le ultime creazioni di questo genere popolare vanno piuttosto apprezzate come l’estremo canto della nostalgia. Verso un mondo lontano, ma sempre presente nella memoria collettiva ispanica, che tutt’oggi riconosce in quella storia e, soprattutto, in quella musica, le radici della propria cultura, dei propri affetti, di un nazionalismo artistico e popolare che non ha perso, nel corso degli anni, né l’effusione romantica né l’enorme potere evocativo ed emozionale che pervadono queste opere teatrali.

AMADEO VIVES, l’incorruttibile spontaneità.

“Ci sono senza dubbio, nelle zarzuelas di Amadeo Vives, esplicite prove della sua personalità, del suo temperamento e della sua incorruttibile spontaneità” (Xavier de Montsalvatge)

Di umili origini, il padre fornaio, Amadeo Vives nasce il 18 novembre 1871 a Collbaltò, piccolo villaggio posto alle falde del Montserrat, il massiccio che sorge nel cuore della Catalogna e che ospita il celebre monastero dedicato alla “Moreneta”, Santissima Vergine nera e patrona della regione spagnola. All’epoca sotto il dominio temporaneo di Amedeo d’Aosta, giunto a placare gli animi di una nazione travagliata da una guerra interminabile per la successione al trono di Isabella II, e che nel ’73 dovrà abdicare cedendo alla proclamazione della prima repubblica spagnola.

Ci sono luoghi al mondo dove i fatti politici, anche i più sconvolgenti, giungono come un’eco, attenuati dalla serenità dei campi. Questa è la immagine bucolica del luogo , prossimo alle rive del fiume Llobregat, in cui tutt’oggi si coltivano vitigni ed ulivi, che ha ospitato Amadeo fanciullo, condizionato dai mezzi precari di un’esistenza certo non agiata, ma non osteggiato, anzi favorito da un ambiente familiare sensibile e stimolante, all’apprendimento delle prime nozioni musicali. Le sue prime aspirazioni, dunque, non conoscono ostacoli; anzi letteralmente sollevato sulle spalle del fratello maggiore Camillo, novello San Cristoforo, si reca alla vicina cittadina di Esparraguera per studiare musica. Perché, sebbene il nostro protagonista non ne parlasse mai, dall’età di cinque anni la metà destra del suo corpo rimase irrimediabilmente lesa da una probabile poliomielite. Un peso morto che lo accompagnerà per tutta la vita e che, ciò nonostante, non inacidì il carattere aperto ed spiritoso.

A sette anni, per motivo anche della malattia, viene recluso – che così parve allo spirito libero ed anelante ben altri orizzonti del nostro eroe – nell’Asilo di San Juan de Dios di Barcellona, per trovare le cure che non è possibile somministragli nel paesino. Ma il carattere ribelle, alle soglie dell’adolescenza, lo porta ad un’avventurosa fuga. Non già al ritorno in seno alla famiglia, dove la precaria situazione economica e l’impossibilità, per Amadeo, di integrarsi al duro ritmo lavorativo, avrebbero costituito un serio problema. Il coraggioso ragazzo si presenta davanti al Maestro Ribera, direttore del coro di voci bianche della chiesa di Santa Ana: “Vull ésser mùsic” sbotta in catalano, sua lingua materna. Che bella cosa, ad undici anni, sapere già cosa si vuol essere da grandi! E così, con una piccola paga di due reales giornalieri da un lato si rende autosufficiente, dall’altro ha la possibilità di apprendere, con profitto e rapidamente, le prime nozioni di armonia, composizione e contrappunto. A quattordici anni, però, la voce muta, ma il Nostro facendo tesoro dell’amplio bagaglio di conoscenze musicali si sposta a Malaga, con un avventuroso viaggio via mare, dove assume, nel 1886 e per mediazione del fratello Camillo, la direzione della Banda del locale Asilo di San Juan de Dios. Inizia così una precoce attività di autodidatta, che ha sviluppi anche nel campo letterario, con sorprendenti risultati. Da Malaga si trasferisce a Toledo, da Toledo passa anche per Madrid, città che finirà per adottarlo definitivamente, consacrandolo alla fama, e dove si spense serenamente il 2 dicembre del 1932, confortato dai suoi cari e dai più fedeli amici, dopo una breve agonia per le complicanze di un infarto, mentre stava lavorando all’opera “Talisman”, rimasta incompiuta.

Un ritorno, quasi da figliol prodigo, a Barcellona lo fa incontrare, nei fumosi caffè bohemiens della Calle Pelayo, con Lluis Millet ed assieme fondano l’Orfeò Català, una corale ancor’oggi attiva e prestigiosissima, che troverà la sede propria nello stupendo Palau de la Musica Catalana, meraviglioso auditorio modernista dell’architetto Domenech i Muntaner che contende a Gaudì fama e prestigio. Vives, sebbene abbia già composto delle sonate allo stile di Beethoven, che lo ha folgorato sin da bambino, ed una sinfonia –oggi persa- può nell’attività corale esprimere subito quella sua vena melodica, fluente ed immediata, che lo rende individuabile e personalissimo. Le sue canzoni, in particolare “L’emigrant” su testo di uno dei massimi poeti catalani, Jacint Verdaguer, ottiene un’incredibile e dilagante accoglienza popolare. In essa si raccoglie la triste storia di tutte le assenze ed è musicata con il più amaro sconforto, ma riesce ad infiammare gli animi, alla maniera del celebre coro del verdiano Nabucco. Una canzone che per il suo contenuto melanconico e nostalgico, valica frontiere e accomuna nel sentimento coloro che non vorrebbero mai partire e sradicarsi dalle proprie tradizioni, dalla loro terra.

Contemporaneamente il giovane Vives, che nel frattempo ha perso prematuramente entrambi i genitori estenuati da rovesci economici e da una vita di stenti: la madre si riduce a fare la domestica ad ore per sbarcare il lunario, trova in una giovane orfana, Montserrat Giner, a cui l’accomuna un passato di sofferenza affettiva, il calore e la speranza di poter metter su famiglia. Per la semplice cerimonia nuziale, avvenuta il 6 aprile del 1895, l’amico Millet deve prestargli una giacca, ma il coro Orfeò arricchisce l’evento cantando per la prima volta un’altra delle sue celebri canzoni: “La Pastoreta”.

La prima composizione teatrale, di colui che è destinato a divenire il massimo autore dell’ultima, ma fulgente, stagione della zarzuela, è invece un’opera, Artus che tra mille difficoltà vede le luci della ribalta il 19 maggio 1897 al Teatro Novedades di Barcellona. Dopo un inizio un po’ freddino, dovuto anche all’improvvisa indisposizione del tenore protagonista, tale Barba, che più che possedere una voce, come spesso capita proprio ai tenori, è posseduto dalla voce che beneficamente il buon Vives domina preparando di sua mano un provvidenziale zabaione, l’opera conosce un franco successo. Tant’è che Amadeo viene scortato a casa con un festoso corteo. Ma soprattutto gli rende ben mille pesetas, cifra da capogiro per l’epoca, che giungono a puntino visto che in casa è già arrivato l’erede! Dopo questo brillante debutto, Vives intuisce che urge trasferirsi alla capitale, Madrid. E lì inizia la proficua attività teatrale dell’illustre zarzuelero… con un sonoro insuccesso. Ma Vives non si disarma né si scoraggia: Don Lucas el Cigarral riporta un successo incontrastato e lo consacra definitivamente tra i più promettenti compositori della sua generazione. Inizia così un’attività frenetica, che lo vede imporsi anche nel settore letterario come saggista, critico musicale, autore teatrale e scrittore di novelle, didatta, arguto affabulatore in dotte disamine che lo trovano preparatissimo, egli autodidatta per definizione, nei più svariati argomenti, dall’etica alla politica. Non secondaria è la sua proficua attività di impresario teatrale, in società con altri illustri colleghi. Il successo, comunque, arriva finalmente ed incontrastato nel 1904 con Bohemios, zarzuela in un atto con il libretto di Perrin e Palacios – autori poco più tardi de La Generala – ambientata nella Parigi di Henri Murger, ma con una trama romantica che nulla ha che vedere con quella della Boheme di Puccini. Raggiunge così l’apice di una popolarità a cui non verrà mai meno, che anzi si riconferma ed ingrandisce ad ogni nuovo titolo, in particolare con la zarzuela “grande” Maruxa, di ambientazione galiziana e quindi con quella che è considerata il suo capolavoro assoluto, ed in assoluto una delle zarzuele più rappresentate, Dona Francisquita, uno squarcio ideale della Madrid romantica liberamente tratto dalla commedia La discreta enamorada di Lope de Vega. La lista dei titoli si fa lunghissima, molti scritti in collaborazione –come del resto era uso ai tempi- con altri prestigiosi colleghi: Pablo Luna, Jeronimo Gimenez, ecc., ed ancor oggi molti si interrogano sul segreto del geniale autodidatta.

Qual è la formula vincente di questa sua immediata ed imperitura popolarità? Non è per nulla facile definirla, impossibile appropriarsene. Ma la soluzione del mistero è, come spesso capita, alla portata di tutti. La musica di Vives ha delle caratteristiche ben individuabili, definite: melodia facile, sentimenti popolari, eleganza romantica e sapore spagnolo. Eppure non indugia, con la prima, nell’”italianismo” di molti suoi celebri e giustamente celebrati colleghi, quali Asenjo Barbieri, autore de El barberillo de Lavapies ed Emilio Arrieta, con la sua famosa Marina; né con i secondi scade nel superficiale e popolaresco stile, per altro godibilissimo, di Chueca e di Fernandez Caballero; nemmeno, con la terza, nel “puccinismo” di tanti contemporanei, non solo tra gli autori di zarzuela. Vives ha saputo evitare anche le formule prevedibili e il facile letto di un folklore gratuito fatto di flamenco ed habaneras, così come è riuscito a mantenersi fuori dall’ondata filo americana che, impercettibilmente, ma inevitabilmente, ha trascinato altri autori contemporanei verso la commedia musicale più frivola e verso la rivista.

La opera di Amadeo Vives si caratterizza sempre per una fresca e facile ispirazione melodica, elegante e di altissima classe, nobile ed impregnata dell’anima spagnola più sincera ed autentica, con la capacità, davvero sorprendente, di adattarsi ai relativi regionalismi, l’andaluso, il castigliano, il basco, il galiziano e, logicamente, il catalano, mantenendo un’ottica amplia, di veduta aperte ed internazionale, sensibile e cosciente dell’evoluzione che si stava attuando nel mondo musicale europeo ed occidentale, ma con la consapevolezza di esprimere e raggiungere un linguaggio universale ed immediato. L’armonizzazione ricca e luminosa, dal chiarore assolutamente latino e mediterraneo, la orchestrazione sapiente, robusta e trasparente nel contempo, di magistrale struttura e caratterizzata da un lirismo che mantiene la fragranza di ciò che è genuinamente popolare, meravigliosamente miscelata con l’elemento della distinzione e di una personalità che non si è piegata, orgogliosamente, a nessuna scuola, coltivando anzi uno stile proprio con una emotività talmente diretta da garantirgli il crisma dell’immortalità.

LA GENERALA, la guerrillera dell’amore.

Pur dovendosi piegare all’inflessibile legge, rispettosa della universale esigenza del “pane lucrando”, massime per un autore in veste di impresario e in un’epoca in cui non era nemmeno concepibile il concetto di sovvenzione pubblica nell’attività teatrale, Vives mantenne, anche nelle opere apparentemente più frivole, la classe, l’eleganza e, non ultimo, l’entusiasmo, “sale dell’anima” per sua definizione, che contraddistinguono la sua intera produzione.

Il dilagare, anche nella penisola iberica, delle melodie lehariane, dopo il primo successo de “La vedova allegra” e, soprattutto, de “Il conte di Lussemburgo” – adattato allo spagnolo dal collega e socio nell’impresa teatrale, Vicente Lleò – convinse e condizionò la felice accoppiata costituita da Perrin e Palacios, che già avevano confezionato la brillante zarzuela “Bohemios”, a scrivere il libretto di un’operetta in stile viennese, participando ad una momentanea tendenza popolare del teatro musicale spagnolo che nel corso della prima decade del secolo scorso tese a sdegnare gli argomenti e le melodie vernacole della zarzuela tradizionale, specialmente del Genero chico, a favore di una offenbachiade più cosmopolita (a cui non furono estranei compositori di alto livello, quali José Serrano e Lleò, tra gli altri) e soprattutto di una Lehariade altrettanto efficace ed ancora più alla moda. Occasione colta al volo da Vives che compose le musiche per La Generala”, accolta trionfalmente sin dal suo debutto, il 14 giugno del 1912, al Gran Teatro di Madrid. Una delle più briose tra le sue zarzuele, seppure in questo spartito evitasse con cura meticolosa qualsiasi allusione a florilegi melodici tipicamente spagnoli e quantunque la giga militare del secondo atto brilli più di luce dorata del nord est iberico, della Galizia, che del sole più pallido della pretesa Scozia impersonata dagli Highlanders del libretto: ma tra le due regioni c’è comunque una medesima matrice celtica! La struttura dei numeri chiusi è facilmente identificabile: operettistica, quando prevale l’elemento caricaturale, per esempio nel mettere alla berlina le debolezze dei monarchi in esilio; squisitamente zarzuelistica quando sono in gioco i sentimenti, in bella evidenza nei duetti amorosi tra la protagonista ed il principe Pio, pur adagiandosi sulle molli volute del valzer e ancora tra questi e la irrequieta principessina Olga.

La trama raccoglie spiritosamente uno dei temi preferiti della Belle Epoque, la bonaria caricatura di quei piccoli stati balcanici iniziata col Pontevedro di Victor Léon e Leo Stein, enfatizzata più tardi nel film di Ernst Lubitsch –dove per trovare sulla carta geografica l’immaginifico staterello si deve far uso della lente d’ingrandimento- e lo sviluppa in un cocktail spumeggiante che riunisce le situazioni della citata “Vedova” e di “Sogno di un valzer” di Oscar Straus, rispettivamente del 1905 e del 1907 e subito approdate con gran successo in Spagna, risultando una sorta di scanzonato “Cavaliere della rosa”, iberico sin nel midollo nonostante l’ascendenza d’ispirazione asburgica e l’ambientazione formalmente inglese. Potrebbe, ciò nonostante, essere la continuazione ideale di quella “Vedova” che, ritornata alle sue origini plebee – la “deliziosa ochetta di campagna”, tramutatasi in uccello del paradiso grazie alla strabiliante eredità, secondo le chiacchiere maldicenti delle dame dell’ambasciata parigina del Pontevedro, non dimentichiamolo – riesce operettisticamente a vendicarsi nel beffeggiare astutamente non una ma due teste coronate. I monarchi di Molavia, la cui reminiscenza serba nella scelta esotica del nome parla chiaro a chi l’intende e, soprattutto, anticipa di poco i tragici avvenimenti balcanici che nel capolavoro di Lehar nemmeno si intuiscono, potrebbero benissimo essere quelli del Pontevedro, obbligati alla rapida fuga e all’esilio più per la bancarotta che per moti rivoluzionari. Cirilo II e la regina Eva, fuggiti senza nemmeno il tempo di fare le valige, in incognito, in treno e, quel che è più umiliante, in un vagone di terza classe, finiscono per riparare in Inghilterra, presso il fedele alla corona e, probabilmente in precedenza alle casse del fantasioso reame, Duca di Sisa: in spagnolo “sisa” sta per mano lunga e il verbo “sisar” significa far la cresta sui conti. Con loro il figlio spendaccione, spensierato e costituzionalmente, in senso genetico più che politico, donnaiolo. E’ l’emulo, ancora più scanzonato e blasé del Conte Danilo, che però ha sposato, prima di essere obbligato al matrimonio riparatore … delle finanze della casata!, la filosofia del Duca, quello di Mantova del “Rigoletto” per intenderci: “Questa o quella per me pari sono” e lo manifesta senza scrupoli nello scegliere tra le papabili da impalmare la deliziosa cuginetta Olga, figlia del re Clodomiro V di Espartanopia, un regno che –come di nuovo infallibilmente suggerisce il nome- ha delle finanze potenti e solide. “Non ti preoccupare” suggeriscono riuniti in un terzetto degno di ben altre cospirazioni, gli augusti genitori ed il Duca ospite “se con gli anni arriveranno addirittura tre eredi al trono, non dovrai lavorare per mantenerli!”.

In questo idilliaco quadro, la cui ambientazione nelle austere e dotte città inglesi di Oxford e Cambridge, rispettivamente nel primo e secondo atto, non fa che sottolineare la malizia dell’azione, che non ha nulla da condividere con quei proverbiali centri del sapere e della scienza, irrompe con una irrefrenabile carica rivoluzionaria Berta. Ex vedette del varietà che, abbandonato il palcoscenico dell’Olympia parigino dove era circondata da ammiratori, in testa tra questi l’ancora adolescente, ma già sufficientemente scavezzacollo principe Pio, l’è riuscito d’impalmare il miliardario Generale latino americano Tocateca. Dorata testa d’asino e forse di bue, bonaccione e sempre disposto ad aprire la borsa per cedere generosi prestiti, anche agli ex monarchi di Molavia che non esitano a farsi avanti con la scusa di averne bisogno per le future nozze del ruspante rampollo. Col Generale, saporita macchietta in largo anticipo sui tempi, si ridicolizza la drammatica realtà di tanti governi golpisti che hanno infierito in quelle lontane regioni; egli rappresenta, inconfondibilmente, l’elemento buffo per eccellenza in ogni commedia ispanica, dove le differenze etniche e linguistiche, lungi dall’essere considerate razziste, hanno il sapore della comicità che in Italia forniscono, ad esempio, le diverse cadenze dialettali: si pensi al veneziano Pesamenole, nella versione italiana de “Al Cavallino bianco”, alla verace zia Grazia di “Scugnizza”. Ma i librettisti, e Vives, non puntano su di lui per lo svolgersi dell’azione drammatica e sul destino che lo attende, dato il disinvolto comportamento della moglie. Caratterizzato dal canoro accento argentino o dall’aspirata pronuncia venezolana, a seconda dei casi (e dell’attore caratterista) cui fa a sua volta da spalla un grottesco attendente, Guanajato, con l’inconfondibile –per gli spagnoli- cadenza messicana, il Generale rappresenta, anzi, l’involuzione ironica, un po’ imbolsita e a tratti teneramente patetica, del conte Danilo, vittima e non trionfatore dei milioni di Hanna Glavari, cui tocca fare i conti con una sposina tanto più giovane di lui. Bella, procace, in una parola: irresistibile. La sublimazione di tutte le Lulu, Dodo, Joujou e Frufru che frequentavano allegramente Chez Maxim’s, ma pur fedele al modello imposto da Valancienne che, va ricordato, nei più scabrosi frangenti si mantiene pur sempre una donna onesta che il matrimonio rispetta.

Berta, non sappiamo quanto consapevolmente, è animata dallo spirito della rivalsa e della rivolta. Rivalsa verso un mondo futile e vano, a cui senz’altro e per altro appartiene, che ora vede ai suoi piedi di arricchita ed affascinante parvenuée. A differenza della Glavari, però, ella irride quel mondo di cartapesta che, in parte è già crollato “pei vizzi suoi”. E lo manifesta subito nella celebre Canzone dell’Arlecchino, suo cavallo di battaglia sul palcoscenico dei boulevards parigini, in cui si fa gioco della debolezza dell’uomo, che irretito nelle reti amorose da una donna finisce per comportarsi come un burattino, movendosi a comando quando si tendono le corde. Una allegra polchetta, ripresa da tutta la compagnia a più riprese, autentico leitmotiv –o se si preferisce, gioioso tormentone- nel corso di tutta l’operetta; era abitudine inveterata quella di scrivere il testo sul programma di sala o, addirittura, su un cartello che veniva a tempo e luogo calato sul palcoscenico, coll’invito rivolto al pubblico, che si prestava senza riserve, a cantare il ritornello: “Es un muneco el Arlequin, un munequito de cartòn, ecc.”. Un motivo orecchiabile ed attaccaticcio dalla presa immediata che ha la dirompente efficacia di un inno rivoluzionario.

Berta, in realtà, è una passionaria dell’amore, svincolata da ogni legame che abbia caratteristiche coercitive. Cosa l’abbia attratta nel Generale, è un segreto che né Perrin e Palacios, né tantomeno Vives, vogliono svelare: forse la prospettiva di un futuro borghese, placido e la conquista di una reputazione negata ad una “coupletista”. Ma allora perché ha rifiutato e rifiuta la corte del giovane principe, che vorrebbe rinverdire in lei i “dolci sogni d’adolescente”, probabilmente coronati da una biblica conoscenza durante una precedente visita alla Ville Lumiere? Perché irride l’etichetta, spregiando ostentatamente le moine ed i salamelecchi con cui la vorrebbero circuire Eva e Cirillo II, i due scalcagnatissimi monarchi che ancora ricordano con orrore la fuga notturna da corte? Perché confessa candidamente al militaresco coniuge che per lei i re sono uomini come tutti gli altri, se togli loro la marcia reale? E perché, finalmente, come Franzi di “Sogno d’un valzer”, fraternizza con la principessina Olga, che in principio scorge in lei giustamente una pericolosa rivale, favorendone le ansie leggiadre ed, addirittura, combinando l’incontro notturno con il sospirato principe, nel piccolo Trianon che, a guisa di quello di Versailles, abbellisce il giardino?

Perché, Berta –grazie a Perrin e Palacios- mostra anche analogie col mondo Topsy & Truly, cioè sottosopra, di William Gilbert; rivestito, quello, dalle deliziose musiche di Artur  Sullivan, che Vives, non sappiamo fino a che punto, doveva aver pur presenti nel confezionare i brani più pungenti. In effetti la Generala, già dal suo ingresso, distrugge con la spontaneità irriverente del suo canto –con l’entusiasmo che caratterizzò sempre Vives- l’immagine che il titolo militare sottintende. A differenza della altrettanto battagliera Granduchessa di Gerolstein di Offenbach, il suo linguaggio musicale ce la presenta come una forza impulsiva e determinata contro l’ordine prestabilito, perfettamente cosciente ed orgogliosa delle proprie origini plebee, contraria all’ipocrisia ed alle meschine manovre che ordiscono i monarchi per concludere l’ennesimo matrimonio di convenienza tra consanguinei. Questa forza rivoluzionaria viene dal basso e da fuori, voce genuina del popolo che si è raffinata non per le astuzie della diplomazia e con i compromessi di palazzo, ma grazie alle esibizioni in fumosi cabaret della Parigi bohemienne. Da lì proviene anche la sua presenza dominante, da autentica sovrana, il piglio sicuro e intraprendente che mette allo sbaraglio e contro la parete tutti i monarchi, prima ancora che questi abbiano il tempo di reagire. E’ una situazione che è l’esatto contrario di quanto avviene ne “La principessa della Czarda” di Kalman. Là una canzonettista di Budapest solo alla fine, e dopo aver adottato diversi stratagemmi e sottintendendo la rinuncia alla carriera ed all’arte canora, riesce a farsi accettare da un mondo che, sebbene di cartapesta nella finzione e già fatiscente nella realtà, vorrebbe mantenere i propri diritti feudali.

Non agisce certo così l’eroina di Vives che non ha nessuna intenzione di arrendersi, nemmeno quando i due augusti genitori, Cirillo II e Clodomiro V, la soprendono in dolce colloquio con il principe farfallone. Berta, anzi, si vanta ed ostenta la sua libertà di donna libera ed “in carriera”, e giocando d’anticipo sull’emancipazione femminile, aprofittando di equivoci e pregiudizi che, una volta tanto, si rivoltano contro i loro propugnatori, si burla dei parrucconi. Non si vergogna, in definitiva, di passare per adultera e, forse, peggio quando è sorpresa a colloquio col giovane Pio. Una Generala libertina? Una cabarettista ninfomane? No, l’artefice di sé stessa e del proprio destino che si diverte a creare imbarazzo e che si guarda bene dal confidare il motivo di quell’incontro galante che frutterà la sua ultima e definitiva beffa alle spalle di tutti nel brillante finale. Una zarzuela rivoluzionaria, dunque? Tutt’altro. Verrebbe voglia di aggiungere che tutto nel mondo è burla, non fosse che l’ultima parola spetta di dovere alla Generala, il cui motto, ormai lo sappiamo, è che l’uomo, nelle mani di una donna, è pur sempre un Arlecchino.

Motti e frasi di Amadeo Vives

“Se la musica fosse architettura, quanti spartiti sarebbero già crollati”

“La zarzuela è composta da musica che si deve poter canticchiare. Se dopo due settimane dal debutto le arie più famose non sono intonate da cuoche e cameriere, si è perso solo del tempo”

“Mozart rappresenta la musica nella sua totale purezza. Solo lui è riuscito a scrivere musica che non è altro che musica”

“A cosa le è servito imparare memoria trentadue opere di Beethoven?” gli fu chiesto un giorno: “A frenare le mie ambizioni”.

“Che opinione ha della Corrida?” gli domandò un importante cronista taurino: “Cerco di dimenticare che esiste”

Noto per le sue attitudini letterarie, vi fu chi gli chiese come mai non scrivesse i libretti delle proprie zarzuelas. Ed egli sornione rispose: “Perché così divido la responsabilità del successo: se l’opera non piace è sempre colpa del librettista…”

Andrea Merli

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