NOVARA: La traviata – Giuseppe Verdi, 5 maggio 2019

NOVARA: La traviata – Giuseppe Verdi, 5 maggio 2019

Opera in tre atti
Musica di Giuseppe Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “La Dame aux camélias” di Alexandre Dumas figlio

 

Direttore Matteo Beltrami
Regia Renato Bonajuto

Personaggi e Interpreti:

  • Violetta Valéry KLÁRA KOLONITS
  • Flora Bervoix CARLOTTA VICHI
  • Annina MARTA CALCATERRA
  • Alfredo Germont DANILO FORMAGGIA
  • Giorgio Germont ALESSANDRO LUONGO
  • Gastone / Giuseppe BLAGOJ NACOSKI
  • Barone Douphol / Commissionario ROBERTO GENTILI
  • Marchese d’Obigny CLAUDIO MANNINO
  • Dottor Grenvil ROCCO CAVALLUZZI

Orchestra della Fondazione Teatro Coccia con Orchestra del Conservatorio “Cantelli” di Novara
Scene Sergio Seghettini – Costumi Matteo Zambito 
Produzione Fondazione Teatro Coccia
Allestimento del Teatro Goldoni di Livorno

 

Teatro Coccia, 5 maggio 2019


La stagione 2018/19 si è chiusa al Teatro Coccia con una sorprendente edizione del popolarissimo titolo verdiano (non a caso le due recite e pure la prova “generale”, aperta al pubblico under 20, hanno registrato il tutto esaurito) prodotta in loco.

Si insiste sul “sorprendente” non solo per il risultato trionfale della recita pomeridiana di domenica 5 maggio, soprattutto perché in corso di prove ne sono capitate di ogni e fino all’ultimo si è seguita la gestazione con il fiato sospeso. La produzione, firmata per la regia da Renato Bonajuto, procedeva in buona parte da un allestimento creato per le scene del livornese Teatro Goldoni, là con le scene di Sergio Seghettini qui a Novara abilmente riciclate da Danilo Coppola, giovane e talentuoso scenografo, che le ha sapute ridimensionare ed arricchire anche con la costruzione, come quinta corporea a fondo scena, di parte della facciata del Teatro Coccia, laddove a Livorno era quella del teatro locale, in quanto elemento determinante nello sviluppo e nella drammaturgia, retrodatata da Bonajuto agli anni Sessanta dello scorso secolo. Violetta è qui una donna “moderna”. In quanto tale non necessariamente una prostituta, ma semplicemente una donna che consapevolmente vive liberamente la propria sessualità. Amante del Barone, e forse prima di lui di altri, scopre nel giovane Alfredo, un provincialotto appena giunto dalla Provenza (ma potrebbe essere la Sicilia di “Rocco e i suoi fratelli”, per intenderci) impacciato sì, ma anche infuocato e deciso a farle la corte, provocando in lei tenerezza all’inizio e poi convincendola che alla passione si può unire l’amore. Alfredo è l’intruso in una società corrotta, conformista e borghese nonostante lo sprecarsi di titoli cruscanti di una nobiltà che, particolarmente in Piemonte, resiste alla caduta dei Savoia. E’ introdotto dal Viscontino, il diminutivo allude alla sessualità gay di Gastone che durante la festa approccia uno dei camerieri di Violetta, che potrebbe aver incrociato in un incontro casuale. La sua impulsiva e ruspante ingenuità seduce Violetta, la quale non esita, durante il “pertichino” in piena cabaletta, ad aprirgli il portone e ad accoglierlo a braccia aperte, dopo aver tenuto uno strabiliante Mi bemolle.

Il secondo atto si svolge ai bordi della piscina di una lussuosa villa. La casa di Flora è una bisca di lusso, con tanto di tavolo da biliardo. I giocatori vengono intrattenuti da un’acrobatica e discinta ballerina di Lap dance (bravissima e bellissima Valentina Lattuada) mentre le signore, allupatissime, si contendono uno stripper che se le spupazza a dovere ed alla fine rimane con le chiappe al vento: è l’esotico ed erotico ballerino Mohamed Bakkal El Idrissi. La scena della diffida vede Alfredo, precedentemente preso a schiaffi dal padre al rifiuto di tornare nella natia Provenza, atterrato da un violento pugno assestatogli dal Barone; qui la regia, in grazia dell’attualizzazione, raggiunge uno dei momenti più significativi: Violetta conferma la sua forza morale ed il suo amore nel soccorrere Alfredo, nel cantargli accarezzandolo e sussurrandoglielo in un orecchio, “Alfredo, Alfredo, di questo cuore non puoi comprendere tutto l’amore…”. Un momento di pura emozione, come del resto è raggelante tutto il terzo atto in cui la morente è finalmente “sola, abbandonata in questo popoloso deserto” e la fedele Annina, il dottor Grenvil e quindi Alfredo e suo padre sono dei fantasmi evocati dalla mente malata. Mentre cade fulminata a terra una controfigura, la sua anima, attraversa nella penombra il fondo scena dove alla fioca luce di tre lampioni di strada si è di nuovo materializzato il Teatro Coccia: la “casa” di Violetta, di Verdi in un colpo di scena meta teatrale.

Questo interessante lavoro registico e l’equivalente preparazione musicale si sono visti minati in corso di prove da una serie di defezioni. A cadere per prima dal cartello, fortunatamente con sufficiente anticipo, la protagonista; per nostra fortuna s’è reso disponibile un soprano di grande interesse per i “vociomani”: l’ungherese Klàra Kolonits, famosissima ed acclamata in Patria, che in Italia fece solo una fugace apparizione oltre 15 anni fa al Teatro Massimo di Palermo ne Il castello di Barbablù di Bela Bartok. Un repertorio che ora non affronta più essendosi specializzata in Belcanto: come lei stessa ci ha confidato nel corso di una fulminea intervista al camerino tra un atto e l’altro, specialmente di Bellini, Donizetti e in alcuni ruoli verdiani, il suo grande amore rimanendo l’ungherese Ferenc Erkel, il “Verdi ungherese”, che lei sognerebbe di poter esportare in Italia.

In attesa del “lieto evento” (confermo che l’opera Bank Ban è un capolavoro assoluto) che non sarà a breve, della Kolonits si sono apprezzate la linea di canto squisita, grazie ad un timbro di soprano lirico pieno, suadente e dolcissimo, con ascesa facile, fluida in acuto, la dovizia nell’amministrazione del fiato, in grado di usare tutti i colori di una tavolozza ricca di sfumature in una interpretazione coinvolgente ed emozionante. Capita di rado di commuoversi a teatro: è successo durante il duetto “Dite alla giovane” cantato con un trasporto immenso e tutto su un fil di voce assieme al non meno bravo Giorgio Germont di Alessandro Luongo, un baritono che si è avuto il piacere di tenere quasi a battesimo e di cui si segue la bella carriera e la progressiva maturazione con particolare attenzione. Egli traccia un padre rigido, severo, ma anche umanamente da comprendere nella difesa strenua più che dell’onore, del futuro di entrambi i figli. Con un canto poderoso, ma che si piega nel cantabile e che rispetta alla perfezione lo spartito e le indicazioni sia del regista che del direttore, con una musicalità ammirevole.

I problemi sono sorti con Alfredo Germont: sospeso per malattia il tenore previsto per la seconda recita, chiamato a sostituirlo a tambur battente Danilo Formaggia, che è arrivato giusto in tempo per assistere alla prova “generale”, dopo il primo atto il pur bravissimo ventiseienne tenore peruviano Ivan Avon Rivas viene fulmineamente messo fuori gioco da una faringite virale. Gioco forza Formaggia è letteralmente scaraventato in proscenio con spartito alla mano mentre l’aiuto regista, la tutto fare Teresa Gargano, ne mima la recitazione in scena. E qui dovrei aprire un capitolo a parte sulla professionalità a prova di bomba, di questo Artista che pure conosco da anni, da quando cioè studiava con Magda Olivero. Buon sangue non mente. Dopo la “prima” risolta con solo due ore di prova di regia, come se avesse partecipato sin dall’inizio della produzione senza sbagliare né movenze né attacchi, con un risultato ammirevole, alla recita domenicale, comprensibilmente più tranquillo, ha dato fuoco alle micce realizzando un Alfredo come da tempo non si ascoltava in teatro; cantato con timbro maschio, senza scendere a sotterfugi e compromessi in suoni falsettanti e con una veemenza ed una partecipazione scenica che hanno sdoganato, in ultima analisi, l’aspetto che non è più quello del ragazzino. Quando si canta così – il paragone sarà pure azzardato, ma era il caso di Bergonzi e, prima di lui, di Gigli – l’aspetto è del tutto secondario, perché contano la parola cantata, l’accento, il fraseggio, l’avvincente interpretazione.

La parte squisitamente musicale è pure piaciuta tantissimo. Matteo Beltrami, che di Traviate ne ha collezionate parecchie nel corso di una ormai ultra decennale carriera, si conferma un direttore di vaglia, abile soprattutto nelle emergenze (come del resto ha confermato dalla ribalta nell’annunciare in corso della “generale” il cambio del tenore) a lavorare spremendo al massimo e tirandone fuori tutte le potenzialità con orchestra e coro, che con lui si sanno superare in bravura e disciplina. Tale il risultato della valorosa Orchestra del Teatro Coccia, in collaborazione con l’Orchestra del Conservatorio Cantelli di Novara, e del Coro San Gregorio Magno, istruito da Mauro Rolfi, ancora una volta volenteroso ed ubbidiente, meritando la lode incondizionata.

Lo spartito è stato eseguito quasi integralmente, con pochi ed indolori tagli (per tutti la seconda strofa del cantabile di Violetta “A me fanciulla, un candido” nel primo atto e nel secondo la ripresa delle cabalette di tenore e baritono; viceversa si è doppiato, a ragione per l’intensa lettura offerta dal soprano, l’ “Addio del passato”) il ché non è scontato nemmeno nei più grandi teatri. Ma ciò che più conta è stata la lettura appassionante e trascinante di Beltrami, gagliardo nei momenti brillanti, il celeberrimo “brindisi” e in tutta la scena in casa Bervoix nel secondo atto, ma incline a cedere alla nostalgia e al rimpianto, con ampie ed ispiratissime frasi musicali, mantenendo leggero e quasi impalpabile il suono dell’orchestra, ottenendo effetti struggenti sia nel menzionato duetto tra Germont e Violetta, quindi nello struggente finale secondo e poi in tutto il terzo atto, preceduto da un preludio che ha meritato l’ovazione del pubblico.

Il cast ha allineato elementi di sicuro valore, alcuni molto giovani: tali il Dottor Grenvil dell’ottimo basso Rocco Cavalluzzi, il baldanzoso Barone Douphol del baritono Roberto Gentili ed il sonoro e molto presente Marchese d’Obigny del baritono palermitano Claudio Mannino. Molto apprezzato il tenore macedone, ma italiano d’addozione, Blagoj Nacoski nel doppio ruolo di Gastone e pure Giuseppe che fa il suo ingresso con il proprio cane Era, la quale scondinzolando ha condiviso gli applausi alla ribalta finale; il mezzosoprano milanese Carlotta Vichi, Flora e il soprano di Trecate Marta Calcaterra, Annina, infine, sono sempre sinonimo di precisione, professionalità e grande resa interpretativa oltre che vocale: bravissime, adorabili!

Una menzione speciale la merita Matteo Zambito, che ha curato la scelta dei costumi coadiuvato dalla bravissima sarta del Teatro Coccia Silvia Lumes. Bravissimo anche il datore di luci Ivan Pastrovicchio: particolarmente suggestivo il terzo atto con le luci di taglio. Alla fine, per volontà della direttrice, Corinne Baroni, tutti i lavoratori del Teatro Coccia hanno condiviso l’applauso a sipario aperto. Un altro momento di festa ed emozione in una situazione periclitante per la cultura in generale e per l’opera, specie in queste realtà che la mantengono vitale. Coraggio e ad majora per la stagione 2019/20 e grazie ancora per quanto di buono e bello state realizzando.

Andrea Merli

 

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