CAGLIARI: Lo schiavo, 22 febbraio 2019

CAGLIARI: Lo schiavo, 22 febbraio 2019

LO SCHIAVO
dramma lirico in quattro atti
libretto Alfredo d’Escragnolle Taunay e Rodolfo Paravicini
musica Antônio Carlos Gomes

 

maestro concertatore e direttore John Neschling

regia Davide Garattini Raimondi

personaggi e interpreti:

  • Ilàra Svetla Vassileva 
  • La contessa di Boissy Elisa Balbo 
  • Américo Massimiliano Pisapia
  • Iberè Andrea Borghini
  • Gianfèra Daniele Terenzi
  • Il conte Rodrigo/Goitacà Dongho Kim 
  • Guarûco Marco Puggioni
  • Tapacoà Michelangelo Romero
  • Tupinambà/Lion Francesco Musinu

Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari
maestro del coro Donato Sivo

scene Tiziano Santi
costumi Domenico Franchi
luci Alessandro Verazzi
coreografia Luigia Frattaroli

nuovo allestimento del Teatro Lirico di Cagliari, in coproduzione con il Festival Amazonas de Opera di Manaus (Brasile)

prima esecuzione in Italia

Teatro Lirico, 22 febbraio 2019


Il Teatro Lirico di Cagliari ci ha sempre riservato, nell’arco di ormai parecchi anni, primizie ed opere rare, spesso in prima assoluta in Italia. Non fa eccezione Lo schiavo, penultima opera di Antonio Carlos Gomes compositore brasiliano di formazione e carriera sostanzialmente italiana. Titolo la cui lunga e difficoltosa gestazione ebbe inizio nel 1883, doveva inzialmente essere rappresentato al Teatro Comunale di Bologna nell’autunno del 1887. Problemi di indole personale – la crisi mtrimoniale che turbò “il cuore e la mente” di Gomes – e incomprensioni col librettista Rodolfo Paravicini, che sfociarono in una disputa finita in tribunale, ritardarono di due anni il compimento dell’opera. Lo schiavo finalmente debuttò al Theatro Imperial Don Pedro II di Rio de Janeiro il 27 settembre 1889, per intercessione della principessa Isabel, la quale indisse una sottoscrizione guadagnandosi la dedica dell’Autore che celebrò così l’abolizione della schiavitù nel suo Paese, fortemente voluta dalla bella imperatrice ed avvenuta nel 13 maggio del 1888. Queste annotazioni storiche, a 130 anni dalla “prima”, spiegano in parte la scelta di un argomento dalla trama farraginosa, messa a dura prova anche dal verseggiare infelice del Paravicini: “roba da far ridere le galline del contadino” per ammissione dello stesso Gomes. Si tratta pur sempre del classico triangolo amoroso, composto dal baritono, in questo caso protagonista, lo schiavo Iberè, dal tenore, il contino Americo e dal soprano, la schiava Ilàra, cui si somma marginalmente un’improbabile contessa di Boissy amante non corrsiposta di Americo. Triangolo che ha il sopravvento sulla questione politico-sociale, sebbene proprio il “canto della libertà” che conclude il secondo atto, fortemente voluto da Gomes, rappresentasse il nocciolo della questione legale col Paravicini.

Siamo nel Brasile, colonizzato dai portoghesi, e corre l’anno 1562. Americo ama riamato la schiava Ilàra, ma suo padre, il conte Rodolfo, a insaputa del figlio impone a questa il matrimonio con lo schiavo Iberè appartenente all’etnia dei Tamoyo, a cui Americo ha salvato la vita sottraendolo alla furia omicida di un caporale. Nel secondo atto Americo rifiuta le avances della contessa francese; questa intuisce che l’oggetto del suo amore è la schiava appena liberata assieme agli altri schiavi, anticipando di oltre 300 anni gli eventi. Nel terzo atto, in mezzo alla giungla, Ilàra e Iberè si ritrovano uniti, ma sebbene lui professi amore, lei lo rifiuta. Nel mentre i Tamoyo si preparano per sopraffare l’esercito portoghese e proclamano Iberè loro capitano. Nel quarto atto sono raggiunti da Americo che accusa Ierè di tradimento e di avergli rapito l‘amato Ilàra. Iberé confessa di aver rispettato Ilàra che si è “conservata” per Americo e per devozione al suo salvatore favorisce la fuga di entrambi, quindi si suicida prima che gli indigeni possano infierire su di lui.

La musica di Gomes riflette prevedibilmente lo stile, il gusto di un’epoca tardo romantica, che cedette il passo alla “scapigliatura”. L’eco verdiana, anche nella soluzione dei personaggi (Ilàra risulta una sorta di Aida brasiliana) è palese; così pure un certo eclettismo che rimanda alla Gioconda di Ponchielli, ma su cui grava un libretto con versi risibili (il grido “Ullallà” degli indigeni è solo una delle perle) e un secondo atto a tratti operettistico, sebbene comprenda l’aria più famosa dell’opera – incisa a suo tempo pure da Caruso – “Quando nascesti tu, nasceano i fior”. Si riscattano il terzo e quarto atto, dove l’azione  ci rimanda a quella analoga de I pescatori di perle. La musica si fa più interessante per soluzioni armoniche e melodiche che possiedono una più marcata originalità. Per tutte, davvero suggestiva, la celebre “Alborada”, preludio orchestrale che precede la quarta scena del quarto atto.

Lo spettacolo, accolto con toni entusiastici dal folto pubblico presente alla “prima” cagliaritana, si avvale della regia di Davide Garattini Raimondi, delle suggestive e funzionali scene disegnate da Tiziano Santi e dai fantasiosi costumi di Domenico Franchi, una reinterpretazione “etnico-vegetale” dei selvaggi ed una stilizzata versione pseudo rinascimentale per la corte francese. Ben dosate le luci di Alessandro Verazzi e così pure idonei i movimenti coreografici di Luigia Frattaroli. Garattini, alle prese con una storia inverosimile, trova nella esposizione chiara e fluida dei fatti la chiave di lettura, dando sfogo anche all’ironia e al sarcasmo nel trattare i nobili francesi con tocchi “politicamente scorretti” di disprezzo nei confronti degli indigeni, visti e trattati come animali esotici, più che esseri umani. Il secondo atto, il più sconclusionato stando al libretto, diventa così plausibile e assume una coerenza indipendentemente dallo svolgersi della storia.

Musicalmente sugli scudi l’ottima orchestra e il lodevole coro del Teatro Lirico, istruito benissimo da Donato Sivo. La direzione di John Neschling, Maestro brasiliano “specialista” di Gomes, non ha convinto del tutto. Le sonorità provenienti dalla buca erano spesso prevaricanti rispetto al palcoscenico, c’è da pensare che il tiro si sia poi aggiustato in corso di replica. L’orchestrazione di Gomes, del resto, pur molto elaborata, tracima spesso in enfasi pseudo wagneriane. Tra i solisti alcune vecchie conoscenze: il valente, sicurissimo in acuto, tenore Massimiliano Pisapia, che ha ricevuto l’applauso più convinto della serata dopo l’aria del secondo atto, e la musicalissima Svetla Vassileva che nel ruolo di Ilàra ha raggiunto momenti di vera commozione, svettando pure lei in alto con grande facilità e raccogliendo il suono in preziose mezze voci, specie nell’aria del terzo atto, sorta di “Cieli azzurri” intonati dalla sua collega, pure schiava, l’etiope Aida.

Gradevole sorpresa, per me che non lo conoscevo affatto, il giovane baritono senese Andrea Borghini, lo schiavo del titolo. Voce di bel colore e gestita con buona tecnica; suoni morbidi e timbrati, senza forzare e seguendo una pregevole linea di canto in un ruolo che prevede tutti i sentimenti umani possibili ed immaginabili: dalla ferocia all’amore, dal disprezzo alla desolazione, dall’abbandono alla furia, il tutto con cambiamenti repentini. Un personaggio difficile da rendere e Borghini c’è riuscito ammirevolmente. Molto brava Elisa Balbo, soprano, nella parte della isterica (ride sempre) contessa di Boissy, la quale si “brucia” intervenendo solo nel secondo atto, dove il direttore ha operato alcuni inspiegabili tagli. Oltre alle intere danze, che comprendono una “Normanna”, “La danza dei Canottieri”, tre danze indigene, “Tamoyo”, “Carigiò”, “Goitaicà” ed alla fine un “Baccanale”, sono state espunte pure la scena quarta e quinta , dove interviene il coro e si svolge un breve duetto tra la Contessa ed il Conte Rodolfo. Questi è stato risolto più che sufficientemente dal basso koreano Dongho Kim, che nel terzo atto ha vestito i panni del selvaggio Goitacà. In parti di fianco si sono distinti Daniele Terenzi, il perfido caporale Gianferà ucciso poi dagli schiavi liberati, il “fante della Contessa” Lion Francesco Musinu passato poi a fare il Tamoyo Tupinambà, Marco Puggioni, Guaruco e Michelangelo Romero, Tapacoà.

Nato in coproduzione con l’Opera di Manaus e probabilmente portato anche a San Paulo del Brasile, la speranza che questo Schiavo si “liberi” anche in altri teatri italiani rimane, comunque, l’ultima a morire.

Andrea Merli

foto Priamo Tolu

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