Festival Verdi 2017 – Parma 28 settembre – 22 ottobre 2017

Festival Verdi 2017 – Parma 28 settembre – 22 ottobre 2017

Il Comitato scientifico del Festival Verdi Parma, presieduto da Anna Maria Meo, avente per direttore musicale Roberto Abbado, per direttore Francesco Izzo e contando con Barbara Minghetti quale consulente per lo sviluppo e progetti speciali, può ritenersi ampiamente soddisfatto ed appagato dal risultato di questa edizione, completa nella sua offerta, che coinvolge anche il Teatro Verdi di Busseto e il Teatro Farnese nel palazzo della Pilotta, differenziata in titoli meno frequentati e altri popolari, con un contorno di manifestazioni interessantissime ed atte anche a coinvolgere la cittadinanza ed un nuovo, più vasto pubblico. Pubblico cittadino e, in crescita, quello forestiero dall’Italia e, soprattutto, dall’estero grazie ad una programmazione intelligente – ed assai faticosa per le maestranze che vi si sono impegnate anima e corpo – nel susseguirsi delle recite che, di fatto ed in consecuzione, permettono la visione dei quattro titoli principali, nell’ordine Jérusalem, La traviata (a Busseto), lo Stiffelio (al Teatro Farnese) ed il Falstaff, di nuovo al Teatro Regio.

Da giovedì 28 settembre a domenica 1° ottobre abbiamo vissuto un’appassionante full immersion verdiana comprensiva di due visite alla sede di Parma Lirica, gloriosa associazione cittadina.

Andiamo dunque per ordine.


JERUSALEM – Teatro Regio, 28 settembre

Si tratta del Grand Opera che segnò il debutto parigino di Verdi il 26 novembre del 1847. Jérusalem è da molti considerata un semplice rimaneggiamento de I Lombardi alla prima Crociata, opera andata in scena al Teatro alla Scala l’11 febbraio del 1843 su libretto di chiari intenti patriottici di Temistocle Solera; in realtà nella conversione dell’opera al francese si conservarono sedici pezzi del primo lavoro, fortemente modificati anche in virtù del nuovo libretto approntato da Alphonse Royer e Gustave Vaez, mentre altri undici, compresa il preludio, furono scartati. Si tratta dunque ed a tutti gli effetti di un’opera nuova; Verdi fece la prima e fondamentale esperienza con le idee teatrali parigine, compreso l’inserimento di una lunga sequenza di ballabili, quindici movimenti per una ventina di minuti, nel terzo atto, e confermò la sua propensione alla scrittura sinfonica e, soprattutto, la duttilità all’adattarsi alle esigenze sceniche, raggiungendo qui una maturità che anticipa soluzioni che avranno ampio sviluppo nelle opere della maturità.

Rappresentata alla Scala il 26 dicembre del 1950, nella versione ritmica di Callisto Bassi, caso unico nella produzione verdiana, Jérusalem non riuscì a soppiantare la precedente I Lombardi, mentre in Francia rimase in repertorio fino alla fine del secolo XIXesimo. Un’opera di rara esecuzione: al Teatro Regio di Parma fu eseguita per la prima volta nel gennaio del 1986, diretta da Donato Renzetti, con Katia Ricciarelli, Veriano Luchetti e Cesare Siepi nei ruoli principali; personalmente se ne ricorda un’edizione a Torino nel 1995, diretta da Bruno Campanella ed una ripresa a Genova nel 2000, direttore Michel Plasson. E dunque ben tornato ad un titolo che, in verità, è di grandissimo interesse, che richiede uno sforzo produttivo notevole ed un non minore impegno musicale.

La spettacolare regia di Hugo De Ana, che pure firma come di consueto scene e costumi (le luci sono di Valerio Alfieri e le video proiezioni merito di Sergio Metalli), coglie infallibilmente nel segno. La scena si compone di pochi elementi corporei, in quella del deserto, simulato dalla pioggia di sabbia che sortisce un effetto notevole, dei macigni – che alcuni sarcasticamente hanno associato al meteorite della pubblicità del Buondì Motta – suggeriscono la grotta dell’eremita, le pareti che chiudono il fondo e fungono da quinte, lateralmente sono alternativamente pareti rocciose o mura di fortificazioni, un’altra tela calando dal soffitto offre gli spazi interni. Con poco c’è tutto e soprattutto De Ana è un mago nell’uso delle proiezioni, molte in movimento e su piani diversi, che di volta in volta suggeriscono interni di chiese, soldati in movimento, e simboli cristiani e arabi. Il tutto con un’illusione ottica di profondità, alterando la percezione del palcoscenico, certo non immenso quello del Teatro Regio, che assume a momenti proporzioni infinite. Abile nello spostamento delle masse, e anche nel loro raccoglimento per esempio nel celebre coro, non più dei Lombardi, ma “des pélèrins“, equivalente a “O Signore dal tetto natio”, quanto nella caratterizzazione dei singoli e nell’uso dei figuranti. Una lode speciale va, infine, a Leda Lojodice per l’elegante coreografia, che pur senza uno specifico riferimento “turchesco” nella musica di Verdi, ha risolto con souplesse e apprezzabile tocco di esotismo, ricreando l’ambiente dell’Harem del Sultano. Uno “spettacolone”, insomma, che sicuramente sarà accolto con altrettanto entusiasmo dal pubblico dell’Opéra de Monte-Carlo con cui è coprodotto e che rende giustamente orgogliose le maestranze locali, specialmente il Laboratorio di scenotecnica, quello di Sartoria ed attrezzeria del Teatro Regio.

Sul piano musicale pure non si poteva offrire di meglio. Iniziando dalla prova del coro, come sempre affidato alle cure dell’insostituibile Maestro Martino Faggiani, che si è superato in compattezza, precisione ed incisività, fornendo una prova di altissimo livello. Così pure è stato lodevole il lavoro dell’orchestra, la Filrmonica “Arturo Toscanini”, guidata con slancio e vigore, ma anche con attenzione alle nuances ed alla “tinta” verdiana, che qui assume una valenza assai diversa dai toni “quarantotteschi” e più ruspanti dei precedenti I Lombardi, da Daniele Callegari, attentissimo al rapporto col palcoscenico, particolarmente arduo nelle scene di massa.

Ottimi pure i solisti, iniziando dal monumentale Roger di Michele Pertusi, che ricalca le orme del concittadino Cesare Siepi, credibile sia quando il personaggio si presenta “vilan”, offuscato dalla gelosia, perfetto nella redenzione ieratica e mistica: per vocalità, pare che la parte sia stata scritta per lui e per l’imponenza della sua interpretazione. Dotata di una voce forse un po’ leggera, se si pensa alla Griselda “all’italiana”, la soave Hélène della splendida Annick Massis conquista per la voce limpida, emessa ad arte nell’esecuzione in pianissimo con eteree messe in voce, per l’uso esemplare del legato. Perfetta nelle agilità, che compensano di gran lunga una zona grave che non le appartiene e che non forza, risulta ideale nell’assumere il ruolo nella versione francese, anche ed ovviamente, ça va sans dire, che per la dizione: lei evidentemente non ha avuto bisogno del coach Elsa Lambert, che pure sugli altri ha fatto un ottimo lavoro. E’ piaciuta tantissimo, sia nella soavità dell’Ave Maria iniziale che nel corso d’opera, risolvendo con autorevole aplomb anche le scene più movimentate dove è richiesta l’agilità di forza, per esempio nel finale terzo quando intona “Non… votre rage, indigne outrage” equivalente del “No Dio non vuole!” in bocca alla più “garibaldina” Griselda.

E’ piaciuto molto il Gaston di Ramon Vargas, sebbene abbia prudentemente glissato la puntatura al Do acuto che Verdi aveva previsto per il primo interprete, Gilbert Duprez “inventore” delle note di petto. Un nota non può inficiare un risultato invero ottimo sia sul piano strettamente vocale che, ancor di più, su quello interpretativo. Vargas ha raggiunto l’apice nella celebre scena del giudizio del quarto atto, cantando con generosità una parte che nella versione francese risulta assai più impegnativa di quella di Oronte ne I Lombardi.

Tutto il cast, del resto, è parso all’altezza: dall’ottimo baritono spagnolo Pablo Galvez, Comte de Toulouse, al poderoso basso bulgaro Deyan Vatchkov, Legato pontificio. E con loro la lunga lista di parti minori, ma assai esposte, che ha visto uno stuolo di preparati solisti: Valentina Boi, Isaure, Paolo Antognetti, lo scudiero di Gaston, Raymond, il basso Massimiliano Catelani, imponente Emiro di Ramla, pure Matteo Roma (officiale dell’Emiro) e Francesco Salvadori (Araldo e quindi un soldato).

Il successo, sottolineato da frequenti applausi a scena aperta, è stato meritatamente trionfale.


LA TRAVIATA – Teatro Verdi, Busseto 29 settembre

Assistere ad un’opera nel minuscolo Teatro Verdi di Busseto corrisponde a “viverla dal di dentro”, sebbene seduti e senza l’interesse mediatico che ha suscitato lo Stiffelio al Teatro Farnese. Ma andiamo per ordine: la proposta, il nuovo allestimento e l’intero cast, sono il frutto dell’Accademia che ha scelto e preparato i giovani artisti, regista compreso. Partiamo dunque dalla parte visiva condizionata, come no, dalla minuscola dimensione del palcoscenico. Andrea Bernanrd, che firma pure la scena con Alberto Beltrame (costumi di Elena Beccaro, luci di Adrian Fago, movimenti coreografici di Marta Negrini) opta per l’epoca attuale, scelta che ormai pare inevitabile specie per le nuove generazioni di direttori di scena, i quali forse non sanno nemmeno cosa sono le crinoline, figuriamoci gestirle. Per dire qualcosa di nuovo, e si fatica ormai nella routine del “moderno” a tutti i costi, partirebbe – il condizionale è d’obbligo – pure bene facendo di Violetta la titolare di una casa d’aste “Valery’s”: in inglese, forse perché in francese “Chez Valery” farebbe troppo parrucchiera, ma non si vuole in questa sede dare pericolosi suggerimenti. Il barone la finanzia e ne ricava, evidentemente gli utili (per la prima volta si vede Violetta pagare i clienti!) e le dà pure da vendere un quadro che lei, ormai perdutamente innamorata, offre ad Alfredo “per riportarlo” al posto del fiore nella casa, non più di campagna, bensì il loft in cui vive la protagonista. Appartamento elegantemente arredato con mobili “vintage” ed evidentemente situato in uno scantinato a cui si accede scendendo da una scala a chiocciola. Il quadro, una foto in cui una coppia amoreggia su un letto, assume più valenze: diventa merce di scambio rifiutata da Papà Germont, viene portato in casa di Flora e gettato ai piedi di Violetta da Alfredo “qui pagata io l’ho” ed infine riconsegnato ad Alfredo: “prendi quest’è un’immagine” per essere consegnato alla “pudica vergine”, una donna presente in carne ed ossa fino alla fine e che di pudico non ha nulla, lasciandoci nel dubbio che sia la vera sposa o la zoccola stipendiata dal padre durante lo “spide date” in casa di Flora. Questo mix tra Traviata e Butterfly è anticipato, in realtà, dall’apparizione di un “piccolo Alfredo” che, a somiglianza di Dolore, irrompe in scena durante la romanza del baritono, a questo punto equiparabile al console Sharpless.

Dunque, troppe idee e tanta confusione. Qualcuno avrebbe dovuto suggerire al regista che si lavora anche per sottrazione e che certo errori, prima che concettuali, sono tecnici: per esempio quello di combinare gli ingressi e le uscite di scena su e giù per la scala a chiocciola. Poco è mancato che si scontrassero gli uni con gli altri. Insomma, è giovane, si farà. Per ora rimandiamolo ad una prossima prova che lo colga più preparato.

Meglio il piano musicale, con l’orchestra – ridotta ovviamente – del Teatro Comunale di Bologna e relativi elementi del coro, che forse andavano scelti con criteri diversi poiché, vista l’età media degli integranti, più che compagni di bisboccia potevano passare per i genitori se non addirittura nonni dei ragazzi che componevano il cast. Sebastiano Rolli, direttore che ammiro da tempo per la precisione e preparazione musicale, ha retto gagliardamente le fila e ne è venuto onorevolmente a capo, eseguendo la partitura integralmente, con tutti i da capo, ivi compreso quello del coro fuori scena del “Bue grasso”, in questo caso talmente “fuori” da essere registrato e trasmesso per TV con le immagini della festa tutta francese del 14 luglio.

Bene, benissimo la protagonista: la giovane koreana Isabella Lee, ineccepibile sul piano musicale, straordinariamente espressiva, e pure molto brava come attrice nell’immedesimarsi in una regia, comunque, non convenzionale. La voce non è forse oceanica, ma è difficile valutare gli armonici in un teatro in cui, allungando la mano, corri il rischio di toccare gli interpreti, ma molto gradevole il timbro e corretta l’emissione. Prevedibile un roseo futuro. E’ piaciuto anche il tenore Alessandro Viola, Alfredo ragazzone e tenore d’un pezzo. Bella voce pure lui, da lavorare ancora un po’, ma generoso e veemente quanto basta e nonostante una regia che, specie nel terzo atto dove è giunto un po’ affaticato, lo ha messo in seria difficoltà tra il padre, l’amante e … la moglie, vigile come un Ghisa!

Marcello Rosiello, ormai un veterano in mezzo a tanti sbarbati, compone un Germont plausibile sia nell’accorato richiamo, sia quando molla ceffoni al figlio discolo. Un po’ di saliva di traverso, incidente che capita ai più grandi, durante il “Di Provenza” non ha compromesso una prestazione molto apprezzata dal folto pubblico che ha avuto applausi anche per tutto il resto del cast, nel complesso ottimo: Marta Leug, Flora, Luisa Tambaro, Annina, Pasquale Scircoli, Gastone “gayo” a cui è riservata una controscena con “marchettone” prima del fatidico “Che diavol fate”, frase che piuttosto andava rivolta a lui, Carlo Checchi, Barone, Claudio Levantino, Marchese, Gerard Farreras Gonzales, Grenvil, mentre le parti di Giuseppe (afflitto chissà perché da un tic nervoso alla spalla sinistra), del domestico di Flora e del Commissionario, sono state affidate ad elementi del coro, il cui Maestro, Andrea Faidutti si è pure prestato a fare il banditore (muto) dell’asta al primo atto.

Alla fine applausi generosi per tutti e qualche sonoro “buh” nei confronti dei fautori della parte visiva che, così, saranno fieri di aver colto nel segno della provocazione.


STIFFELIO – Teatro Farnese, 30 settembre

Trionfo annunciato e altro colpo messo a segno nella poliedrica e stimolante programmazione del Festival. Il tam tam mediatico è iniziato subito, da quando si annunciò che il regista Graham Vick aveva pensato uno spettacolo “in piedi” nel pur magnifico teatro Farnese che però, risaputamente, non fu concepito per l’opera, genere che al suo interno si è sempre adattato male, sia per motivi di spazio che ancor più per l’acustica rimbombante.

Ciò, unito alla richiesta di un biglietto a prezzo piuttosto elevato (150 euro che con i relativi diritti di prelazione – regola esclusivamente italiana – sfiorano la cifra del 180) ha scatenato le ire funeste, ma altrettanto prevedibili, del loggione e non solo, popolazione melomane che ha ottenuto di non includere in abbonamento lo Stiffelio. Motivo per cui, dopo una festosa “antigenerale”, con prevalenza di giovani studenti, alla “prova generale” aperta al prezzo di 5 euro hanno potuto assistere coloro tra i loggionisti & C. che hanno “osato”. Si è dunque arrivati alla “prima”, la sera del 30 settembre, con un pubblico allertato, seppure alcuni stranieri non avevano capito il concetto di “stare in piedi” pensando che, comunque, avrebbero trovato, se non uno sgabello, almeno uno scalino su cui sedersi, fortemente motivato non foss’altro che dalla curiosità, e una fetta consistente di invitati, tra addetti ai lavori, cronisti, e personalità varie. Per dovere di cronaca va anche riferito che dopo l’intervallo (tutti fuori con la sala a porte chiuse) le presenze sono fortemente calate e così l’aspetto oceanico offerto all’inizio da un pubblico fluente e un po’ titubante, che entrava alla spicciolata riempendo la sala al punto di rendere difficile lo spostamento dei carrelli dove si svolgeva l’azione. Nella seconda parte gli irriducibili, tra cui ovviamente l’impiccione, abbiamo avuto maggior agio di seguire l’evolversi dell’happening.

Che tale va considerato, seppure non sia una novità in campo teatrale il prendere parte ad uno spettacolo dal di dentro, ci aveva già pensato Ronconi oltre cinquant’anni fa. Di certo un’esperienza nuova, per molti inebriante, di assistere a un’opera. Che poi sia stato scelto Stiffelio è ininfluente, poteva trattarsi di qualsiasi altro titolo e non solo verdiano. La “scommessa” di Vick, pure lui “girovago” tra il pubblico e che ha gradito un dolcetto alla mandorla (mi ero armato di generi di sussistenza, oltre che di scarpe e vestimenta comode), va assolutamente considerata vincente. Molti tra gli incondizionali si sono commossi alle lacrime provando l’emozione di “partecipare” allo spettacolo “ho debuttato in uno spettacolo di Vick!” si è sentito dire per trovarsi a tu per tu con solisti e coro e comparseria: una folla nella folla in cui non si distingueva più il vero dal finto. E lì sta la “genialata”. Come ciliegina sulla torta, durante gli apoteosici applausi e grida di bravo, si è udito un solitario grido “Viva la famiglia” (nessuno ha gridato “Viva Verdi“, ahimè) ma chi lo ha emesso, al mio fianco sulla pedana dietro l’orchestra, era un finto “sentinello” e dunque si è giunti al massimo: la finzione nella contestazione, senza la quale nessuno spettacolo provocatorio può definirsi realizzato a pieno.

Mi sono divertito? Sì, parecchio. Mi sono stancato? Anche, soprattutto di stare in piedi, ma come per Marcellina nelle Nozze conta l’età e l‘artrosi ai piedi. Qualcosa non mi ha convinto? Sì. Il mescolare il diavolo con l’acqua santa, i “sentinelli” e la “famiglia tradizionale” dove “i maschietti sono maschietti” e “le femminucce sono femminucce” come recitano enormi striscioni sulle gradinate del Farnese (e ciò, ovviamente è “il diavolo“) con la questione “gender”, la violenza della squadraccia catto-fascista sulla povera coppia gay, uno dei due un “sentinello”, colpevole di accoppiarsi in cimitero (e questa è l’acqua santa, anzi santissima). Omaggio – voglio sperare – alla identica scena che apre il secondo atto de Un ballo in maschera per la regia di Calixto Bieito, vista a Barcellona dieci anni fa: niente di nuovo, insomma.

Mi è piaciuta e tantissimo la direzione di Guillermo Garcia Calvo, che ha ottenuto la quadratura del cerchio attraverso i molteplici monitor su cui, più spesso, sbarravano gli occhi i poveri solisti. I quali, come ha confessato uno di loro, si davano appuntamento “alla corona e chi arriva primo aspetti gli altri”.

L’acustica, inevitabilmente ondivaga, non ha favorito nessuno. Perciò, se per caso stavi sotto al carrello giusto, sentivi le voci e poco l’orchestra, altrimenti ed al contrario, viceversa. In questo caso, vista l’eccezionalità della messa in scena, non avrebbe disturbato una calibrata amplificazione.

Bene l’orchestra e bene il coro di Bologna, guidato sempre dal solerte Andrea Faidutti, più volte e casualmente al mio fianco, questa volta in veste di claqueur. Ottima, eroica e gloriosa, la compagnia di canto. Luciano Ganci, giustamente festeggiatissimo Stiffelio, mi ha confidato che, dopo questo debutto, l’opera la potrebbe cantare a testa in giù. Tra i tenori della new age, sebbene ormai in carriera, è quello che tra i colleghi di corda “verdiani” ci sta più comodo, per bellezza di timbro, per squillo e proiezione dell’acuto, per resistenza vocale. Si aggiunga la maturità dell’interprete che offre veemenza nel fraseggio scolpito con accento vigoroso. Rimane la voglia di riascoltarlo, e presto, in uno Stiffelio “normale”. Stesso discorso vale per gli altri. In primis per la valorosa Lina del soprano Maria Katzarava, che come Micaela a Bologna non mi aveva convinto del tutto e che invece qui, a dispetto di qualche acuto sconfinante nel grido, ha composto un personaggio vocalmente credibile, impetuoso e pure ribelle; scenicamente, vestita in modo sconfortante per la sua figura non proprio esile, si è sfiorato il grottesco “volontario” nella scena dell’amplesso a spegni candela con l’aitante e denudato Raffaele del pur apprezzabile, anche vocalmente, Giovanni Sala. Perfetto nel ruolo di padre-padrone il baritono Francesco Landolfi, con al petto la croce di Cavaliere della Repubblica (italiana, beninteso). Molto in parte i bravissimi Jorg, Emanuele Corsaro, Federico, Blagoj Nacoski e la Dorotea di Cecilia Bernini, che hanno avuto l’impagabile pregio di tuffarsi a pesce credendoci nello spettacolo che si dovrebbe riprendere (in piedi?) al Teatro Comunale di Bologna e che presto si vedrà, ma col posteriore sulla comoda poltrona di casa, grazie alle riprese della RAI 5. Ai posteri, dunque l’ardua sentenza.


FALSTAFF – Teatro Regio, 1° ottobre

Con Falstaff al Teatro Regio si torna alla calma ed alla norma. Spettacolo fresco, spigliato e godibile per la regia di Jacopo Spirei (scene funzionalmente storte di Nikolaus Webern, che alterna con facilità l’esterno al chiuso, costumi assai riusciti e spiritosi, con un tocco di kitsch anglosassone, di Silvia Aymonino, luci centratissime dall’infallibile Fiammetta Baldiserri, capace di ricreare atmosfere ed emozioni ottiche) che indugia sulla contemporaneità, con uso di cellulari con cui alcuni in scena scattano selfies e riprendono l’azione.

Si è ormai assuefatti al “moderno”, ma quando si coglie lo spirito e non si altera la drammaturgia, ben venga. Ne vengon fuori con ben altro spirito per esempio i due innamorati, che a dispetto di una musica sognante ed invocante il “raggio lunar del miele“, ci danno dentro e di brutto, essendo assolutamente due ragazzi presi dal quotidiano. Ben realizzate le tre comari, borghesucce e vogliose, specie Quickly che non disprezza le attenzioni del vecchio John. Questi è il solito beone, trascurato e tronfio, ma l’aspetto ironico ed il carattere superiore, di fronte alla mediocrità un tanto meschina degli altri, emerge prepotentemente. Uno spettacolo che è piaciuto a tutti e che ha provocato risate spontanee nel pubblico e non sempre nei punti canonici riservando anche improvvisi colpi di scena.

Sul versante musicale è piaciuta molto la direzione di Riccardo Frizza, adeguata per tempi e sempre attento al palcoscenico, seguito in ciò con attenzione e crescente qualità dalla lodevole Filarmonica “Arturo Toscanini” e dal sempre ammirevole coro, impeccabilmente preparato da Martino Faggiani.

Tra i solisti si staglia la figura di Falstaff che in Roberto De Candia, oggi come oggi, trova un protagonista di assoluto riferimento, sia sul piano vocale che, soprattutto, su quello interpretativo, raggiungendo apici di comicità mai volgare né scontata. Bravo nell’inventiva “L’onore? Ladri!” ma anche nel prosieguo, nei duetti del secondo atto, in tutta la scena del terzo e per finire con il travestimento da Cacciatore Nero alla Quercia di Herne. Una prova maiuscola apprezzatissima dal pubblico. Annunciata in preda all’influenza e febbricitante, Amarilli Nizza in scena se l’è cavata benissimo, cantando con gusto e proprietà senza che si percepisse la benché minima defaillance nella voce, giostrando con elegante scioltezza la sua indubbia avvenenza nei panni di Alice. Le ha fatto eco l’avvenente Meg del mezzosoprano Jurgita Adamonyte, vocalmente ineccepibile e ben assortita con la Quickly straordinaria di Sonia Prina, che ne offre sia vocalmente che scenicamente una nuova visione, di donna oltre che piacente determinata, che certo non si fa prendere alla sprovvista dal sesso maschile.

C’è sempre una sopresa per l’impiccione e questa volta me l’ha riservata la per me totalmente sconosciuta Damiana Mizzi, soprano, Nannetta. Ebbene, con tutta la partigianeria del caso, posso affermare che mi ha fatto sognare, rimandandomi indietro di almeno quarant’anni, quando al Teatro Verdi di Trieste ascoltai la Nannetta di Daniela Mazzucato, di cui la Mizzi ricorda per chiarezza del timbro, per dolcezza nell’emissione in eterei pianissimi, tanto nel “bocca baciata” quanto con il “soffio etesio”, per la scansione perfetta della parola cantata e per la spigliatezza scenica. Un complimento che, scritto da me, può sembrare sperticato: le auguro di cuore di fare la carriera dell’amica Daniela che mi ha così ricordato.

Concludendo coi maschietti: bravo, bravissimo Giorgio Caoduro al suo debutto quale Ford, dimostrando di averne l’autorevolezza vocale e la prestanza scenica: il “sogno“ è stato reso con la massima efficacia. Il Fenton del tenore Juan Francisco Gatell ha composto una coppia perfetta con la Nannetta ed ha cantato assai bene il suo a solo nell’ultimo quadro. Ben assortiti fisicamente e vocalmente tanto il Pistola spilungone del basso Federico Benetti, quanto il trafficone Bardolfo del tenore Andrea Giovannini. Gregory Bonfanti, nei panni del Dottor Cajus una rassicurante certezza di alta professionalità.

Andrea Merli

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