Martina Franca, UN GIORNO DI REGNO – 30 luglio 2017
Melodramma giocoso di Felice Romani
Edizione critica edita da Chicago University Press e Casa Ricordi di Milano a cura di Francesco Izzo – Editore Ricordi, Milano
Maestro concertatore e direttore d’orchestra SESTO QUATRINI
Regia, scene e costumi STEFANIA BONFADELLI
Personaggi e Interpreti:
- Il Cavalier Belfiore: VITO PRIANTE
- Il Barone di Kelbar: PAVOL KUBAN
- La Marchesa del Poggio: VIKTORIJA MIŠKŪNAITÉ*
- Giulietta di Kelbar: DIOKLEA HOXHA
- Edoardo di Sanval: IVAN AYON RIVAS
- Il Signore della Rocca: LUCA VIANELLO*
- Il Conte Ivrea: NICO FRANCHINI*
- Delmonte: DOMENICO PELLICOLA*
Figuranti
Daniele Nardelli, Giusy Galiano
Disegno scenico CHIARA TRANCOSSI
Elementi di scenografia RAFFAELE MONTESANO
Lighting designer GIUSEPPE CALABRÒ
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Maestro del coro Corrado Casati
Orchestra Internazionale d’Italia
Maestro di sala Liubov Gromoglasova
Maestro collaboratore Honglin Zong
Maestri di palcoscenico Giulia Palmisani, Ivana Zaurino, Honglin Zong
Maestro alle luci Valeria Zaurino
Assistente del direttore d’orchestra Carmen Santoro
Assistente alla regia Andrea Muscato
Scenografia e attrezzeria Laboratori Festival della Valle d’Itria, Laboratori Accademia delle Belle Arti di Bari
Costumi Atelier Brancato, Milano
Nuovo allestimento del Festival della Valle d’Itria in collaborazione con *l’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti”
Coproduzione con la Fondazione Paolo Grassi di Martina Franca in collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Bari e il contributo della Fondazione Puglia
Martina Franca – 30 luglio 2017
UN GIORNO DI REGNO – Giuseppe Verdi
A Martina Franca, nella quiete dell’Hotel San Michele in pieno relax balneare attorno alla piscina immersa nel parco, si svolge una sorta di “dopo festival” tra noi, così detti “addetti ai lavori”… recensori, ben inteso.
E dunque tra amici di lunga data, come sono Giancarlo Landini ed Alessandro Mormile, ci si è chiesti ancora una volta quale potesse essere la causa (o le cause?) del ritiro immediato dalla scena, dopo la “prima” burrascosa avvenuta il 5 settembre del 1840, de Il giorno di regno. Domanda oziosa che ci si ripropone ogni qualvolta si riascolta il secondo titolo verdiano, l’unico ascrivibile al genere buffo. Perché? Si incolpa la serie di lutti che afflissero il Nostro nello svolgersi di quell’anno. La trama, si dirà. Il “Melodramma giocoso” di Felice Romani era già stato precedentemente messo in musica, e dunque non costituiva una novità, ma ai tempi la prassi era quella del riciclaggio, di libretti e musica, prova ne siano non solo i celeberrimi “autoimprestiti” di Rossini – in fin dei conti era pur sempre “roba sua” – ma il circolare liberamente da un’opera all’altra e di città in città di brani anche di autori diversi. L’ispirazione del Bussetano non sarà equiparabile a quella dei capolavori immediatamente successivi, e mi riferisco ovviamente al Nabucco e all’Ernani, ma negarne completamente l’originalità sembra davvero troppo. Alcune pagine, si pensi come soli esempi all’ingresso della Marchesa del Poggio e, nel secondo atto, al brillante duetto tra I due buffi e quindi tra la Marchesa ed il Cavalier Belfiore, sono rimarchevoli e, comunque, vi si trova da un lato quel pragmatismo tutto verdiano nello scrivere musica immediata, di radice popolare e, dall’altro, l’anticipazione di quella vena generosa, anche ironica e spesso satirica, rintracciabile lungo tutto il lungo percorso compositivo: le pagine della Forza e del Ballo in maschera, giusto per fare due titoli, ne forniscono una lampante conferma.
Dunque si è ascoltata con interesse questa proposta del Festival, specie perchè ci ha permesso di valutare la prova convincente del giovane direttore d’orchestra romano Sesto Quattrini. Lui all’opera evidentemente ci ha creduto, conducendo con ritmi opportunamente baldanzosi, con gesto eloquente. Si aggiunga un certo edonistico autocompiacimento nella diversione, poichè ogni tanto sembrava dirigere pure il pubblico con ammiccante complicità e con la non chalance di chi è pure spiritoso. Un vero e proprio “piatto forte” orchestrale, eseguito con vigore ed esattezza dalla molto lodevole Orchestra Internazionale d’Italia e dal sempre apprezzabile coro del Teatro Municipale di Piacenza, diretto da Corrado Casati, un acquisto prezioso per il Festival, dove nell’omogeneità del canto i singoli elementi riescono a stagliarsi con partecipazione attoriale da grandi professionisti; ne cito tre per tutti: il mezzosoprano Federica Bartoli, il tenore Vittorio Ceragioli ed il basso dall’inconfondibile figura, Ruggiero Lopopolo.
Tolti tre dei protagonisti, e cioè il Cavalier Belfiore impersonato dal brillante baritono Vito Priante, il Barone di Kelbar, affidato al valido basso Pavol Kuban ed il galante Edoardo di Sanval, interpretato dal giovane tenore peruviano Ivan Ayon Rivas, la rivelazione della serata per bellezza del timbro e generosità nel canto, gli altri artisti procedevano tutti dall’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” e ciò ne conferma la validità di frequentazione e studio sotto l’egida del Maestro Fabio Luisi.
La Marchesa del Poggio ha trovato nell’affascinante Vicktoria Miskunaite la giusta vocalità di mezzosoprano acuto idonea al bizzarro personaggio, che gioca d’astuzia per svelare la vera identità del “finto Stanislao”. Meno efficace, seppure ben preparata, la Giulietta piuttosto flebile del soprano Dioklea Hoxha, mentre al contrario il Signore della Rocca, tesoriere, ha trovato nel pur giovanissimo Luca Vianello generosità vocale e presenza scenica, sebbene questo sia un ruolo buffo destinato a vecchie volpi di palcoscenico. Nel ruolo marginale del Conte Ivrea, il vecchio comandante di che la Marchesa finge accettare quale sposo, si è ancora fatto valere il pur giovane tenore Nico Franchini, mentre Domenico Pellicola ha vestito i panni di Delmonte che la regia ha trasformato in una sorta di… aiuto regista!
Last but not least la regia di Stefania Bonfadelli, ammirato soprano sempre in carriera e qui in veste, oltre che di docente all’Accademia, di regista. Una scommessa, la sua, nell’accettare di mettere in scena in quattro e quattr’otto uno spettacolo che inizialmente si voleva offrire in forma concertante… per i soliti problemi economici. E dunque onore al merito per aver imbastito con gli avanzi (ma ben “cucinati” da Chiara Trancossi e da Raffaele Montesano che ne hanno curato il disegno scenico e gli elementi di scenografia) una produzione tutto sommato piacevole. Che però in parte è sfuggita di mano, nel voler creare una situazione meta teatrale laddove bastava dipanare una trama ingenua e, tutto sommato, ben collaudata nel teatro buffo di tutti i tempi. Trasformare il Cavaliere nel “regista” bizzoso, il Barone nel “capocomico” di una suppostamente scalcagnata compagnia teatrale, afflitta da problemi sindacali con le maestranze ed in cui si muove una sorta di “agente mafioso” – il citato Ruggiero Lopopolo, appunto -che protegge il giovane tenore scritturato per il ruolo del Conte Ivrea, fare del Signore della Rocca un “produttore” restio a pagare anche la capricciosa “primadonna”, ha confuso in realtà un’azione dove dei pirandelliani “sei personaggi” è rimasta solo la confusione, rimanendo incomprensibili ai più i rapporti che vi intercorrevano e, soprattutto, quando recitavano e/o facevano finta di recitare. Ne è risultata una allegra baraonda che, comunque, è approdata ad un franco successo di pubblico.
Andrea Merli