Martina Franca, MARGHERITA D’ANJOU – 29 luglio 2017
Melodramma semiserio in due atti di Felice Romani
Edizione critica di Paolo A. Rossini e Peter Kaiser – Editore Ricordi, Milano
Prima rappresentazione assoluta in forma scenica in tempi moderni
Maestro concertatore e direttore d’orchestra: FABIO LUISI
Regia: ALESSANDRO TALEVI
Personaggi e Interpreti:
Margherita: GIULIA DE BLASIS
Edoardo (figlio di Margherita): ARCANGELO CARBOTTI
Duca di Lavarenne: ANTON ROSITSKIY
Isaura: GAIA PETRONE
Riccardo, Duca di Glocester: BASTIAN THOMAS KOHL
Carlo Belmonte: LAURENCE MEIKLE
Michele Gamautte: MARCO FILIPPO ROMANO
Gertrude: ELENA TERESHCHENKO*
Bellapunta: LORENZO IZZO
Orner: DIELLI HOXHA*
Un Uffiziale: MASSIMILIANO GUERRIERI*
Fattoria Vittadini
Mattia Agatiello, Vittorio Ancona, Erica Meucci, Sebastiano Geronimo, Giacomo Goina, Francesca Siracusa, Libero Stelluti, Loredana Tarnovschi, Cecilia Tragni
Figuranti
Edoardo Adamuccio, Alessandro Casati, Yuri Mari, Vittorio Ancona, Roberta Carbotti, Roberta Loparco, Francesca Topo, Asia Salamone, Caterina Castellana
Coreografie Riccardo Olivier
Scene e costumi: MADELEINE BOYD
Lighting designer: GIUSEPPE CALABRÒ
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Maestro del coro: Corrado Casati
Orchestra Internazionale d’Italia
Maestro di sala e al fortepiano Carmen Santoro
Maestro collaboratore: Anastasia Gromoglasova
Maestri di palcoscenico: Quintiliano Palmisano, Stefania Paparella
Maestro alle luci: Valeria Zaurino
Assistente del direttore d’orchestra: Vincenzo Milletarì
Asssistente alla regia: Piero Mastronardi
Assistente alle scene e ai costumi: Anna Bonomelli
Scenografia: Laboratorio scenotecnico Chiediscena di Iezzi Filippo
Costumi: Atelier Brancato Srl
Calzature CTC Srl
Nuovo allestimento del Festival della Valle d’Itria
*Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti”
Martina Franca, 29 luglio 2017
MARGHERITA D’ANJOU – Gicomo Meyerbeer
L’opera di Meyerbeer, autore non nuovo al Festival della Valle d’Itria risalendo all’edizione del 2000 la riproposta di Robert le Diable ed a quella del 2002 Gli Ugonotti, non a caso sotto la direzione artistica dell’italo-francese Sergio Segalini, offre del compositore berlinese l’immagine giovanile, per certi versi anticipatrice, ma ancor lontana, dalla grandiosità dei futuri Grand Opera che lo resero celebre. Con Margherita d’Anjou Meyerbeer ottenne l’affermazione definitiva, a soli ventinove anni, cambiato l’originale Jacob per Giacomo, trasferitosi in Italia per sciacquare lo spartito… anche nel naviglio milanese. La “prima” trionfale, cui seguirono numerese repliche ed un’immediata diffusione nei teatri di mezza Europa compresa Palma di Maiorca nel 1827, ebbe luogo al Teatro alla Scala il 14 novembre del 1820, in pieno apogeo rossiniano, autore di cui il Tedesco seguì con ammirazione l’orma e le gesta.
Eppure, mentre a Rossini alcuni rimproveravano di perseguire “barbari modi “ tradendo “l’indole natia” e “l’anima di Cimarosa e Paisiello”, altri … anzi, forse gli stessi, a Meyerbeer riconobbero “moderno gusto italiano” rafforzato dalla “perfetta teoria tedesca nello strumentale”. I casi della vita ed il tempo hanno poi chiarito e ridimensionato ogni cosa.
Oggi, Margherita d’Anjou, alla sua prima rappresentazione assoluta in forma scenica in tempi moderni, conferma che se Meyerbeer piacque, e molto, motivi ce n’erano e ne rimangono a sufficienza. Al di là del prevedibile e quasi dichiarato “rossinismo”, c’è una vena originale che a tratti ne fa emergere la personalità e, comunque, garantisce un ascolto piacevolissimo di puro Belcanto, motivo d’essere del Festival, specie in questa 43esima stagione in cui si celebrano i cent’anni dalla nascita di Rodolfo Celletti che del Belcanto fu paladino e del Festival ideatore.
Trattasi di un melodramma semiserio, allietato cioè da un finale felice, in due atti di Felice Romani che molto liberamente trasse spunto dallo storico personaggio della regina francese, moglie di Enrico VI che qui si vuole vedova prima del tempo, ai tempi della guerra dei trent’anni o meglio delle Due Rose, per gli stemmi delle due casate che si disputavano il trono: ai Lancaster, fedeli a Margherita, la rosa rossa, mentre gli York si fregiavano di qualla bianca. Da libretto l’azione dovrebbe scorrere nel 1462 presso le frontiere della Scozia; Margherita (soprano) rimasta vedova con il piccolo figlio Eduardo è sostenuta dal Duca di Lavarenne (tenore) il quale da ben sette anni non vede la moglie Isaura (mezzosoprano) che giunge in campo travestita da garzoncello col nome di Eugenio al seguito del medico francese Michele Gamautte (buffo). I “cattivi” sono presenti sotto le spoglie di Carlo Belmonte e, soprattutto, Riccardo Duca di Glocester, entrambi della corda dei bassi. Inutile dire che le male imprese del perfido Glocester non vanno a buon fine e che la regina, seppur invaghita del coraggioso Lavarenne vi rinuncerà, anzi aiuterà il novello Fidelio – Isaura a riconquistare il marito, cedendole pure l’onere e l’onore di concludere l’opera con un brillante rondò.
Da un punto di vista musicale le cose sono andate assai bene, in virtù della eccellente direzione del Maestro Fabio Luisi che, conducendo la validissima Orchestra Internazionale d’Italia e disponendo del non meno che eccezionale coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati, ha fornito una lettura scorrevole, condivisibile sia nei tempi che nelle dinamiche, senza cedimenti ed esaltando quanto di anticipazione c’è nella “magniloquenza altera” meyerbeeriana, ma sottolineando, però, anche il debito con Rossini. Stupendo, per limitarci ad un esempio, l’assolo di violino, la “spalla” Marius Sima rinforzata poi dal secondo violino Tobias Gossman, che introduce nel secondo atto la scena ed aria di Margherita.
Questa ha trovato nel soprano Giulia De Blasis un’interprete convincente ed una vocalista adeguata. Il tenore Anton Rositskiy, pur non disponendo di un timbro privilegiato, è riuscito onorevolmente a venire a capo del ruolo del Duca di Lavarenne, cui si richiede una tessitura funambolica e fiorettature a non finire, sullo stile rossiniano, appunto. Ottima è parsa Gaia Patrone, mezzoprano dalla voce non oceanica, ma più che sufficiente ad emergere sull’orchestra – che, non dimentichiamolo, procede alla “tedesca” – dotata di una linea di canto ineccepibile, trovando il suo momento magico nell’esecuzione del rondò finale. Su tutti, però, per professionalità, talento e doti vocali, è emerso Marco Filippo Romano, un baritono che pare nato per incarnare ruoli buffi, che affronta senza sconti con una voce che può benissimo sostenere anche parti drammatiche, sia per colore che per estensione ed armonici, e che in scena l’ha fatta da padrone. Note meno felici per i due bassi, cui si concede una risicata sufficienza: Laurence Meike, Belmomonte e Bastian Thomas Kohl, Glocester. Completavano il cast: Elena Treshchenko, Gertrude, Lorenzo Izzo, Bellapunta, Dielli Hoxha, Orner e Massimiliano Guerrieri, un Uffiziale.
Non ha convinto lo spettacolo: il giovane sudafricano di origine italiana Alessandro Talevi, che in una passata edizione ha firmato un gustoso allestimento di Crispino e la Comare, qui ha perso la trebisonda e l’occasione, cercando di cambiare epoca e, quel che è peggio, la drammaturgia. E se nel primo atto ci poteva stare col calzascarpe la location londinense di una sfilata Fashion Week, con Margherita in versione “Il diavolo veste Prada” e Lavarenne ridotto al ruolo di un cantante Hard Rock, un po’ come il pollice di Anastasia nella scarpetta di vetro, finchè non si scopre che ne segue un calcagno chilometrico, nel secondo atto non s‘è capito cosa c‘entrasse la SPA di un campo da Golf, con i “Punka bestia” scozzesi del primo atto convertiti alla salute e bellezza. Per non dire del principino, qui voluto figlio di Glocester, sottratto dalla madre prevaricante all’affetto paterno, in crisi di identità psico-sessuale, intento a pettinare e vestire le Barbyes sotto lo sguardo amorevole e complice di Margherita, la quale, non a caso, finisce l’opera sul lettino della psicoanalista.
Ecco: quando è troppo è troppo. Penso che anche Talevi se ne sia reso conto e ne abbia preso atto, non fosse altro che per le bordate di fischi e di buh che lo hanno accolto alla ribalta assieme i pur, a modo loro, bravi Madaleine Boyd (cui si debbono scene e costumi) e Giuseppe Calabrò, datore di luci.
Andrea Merli