Teatro alla Scala – Concerto Edita Gruberova, piano Peter Valentovic.

Teatro alla Scala – Concerto Edita Gruberova, piano Peter Valentovic.

Milano, 20 marzo 2017


“Edita Triunphans”. No, non è un’opera barocca di Haendel, bensì il titolo che si dovrebbe incidere a caratteri d’oro sui marmi del Piermarini dopo lo straordinario concerto di ieri sera, protagonista la Diva Slovacca, ormai nota al pubblico dei melomani come la “Santa di Bratislava”.

Non è il caso di insistere sulle primavere compiute dall’Edita, che per abbigliamento e pettinatura è rimasta fedele all’immagine che aveva oltre vent’anni fa e che, anzi, di ciò fa orgogliosamente oggi la sua inconfondibile firma “vintage”: un tantino Bette Davis della lirica con quel pizzico di Baby Jane che la rende inconfondibilmente unica, grandiosa.

Elegantissima nel suo abito rosso-valentino, con le “spalle importanti” ed un impressionante ramage di pailletes nere e dorate che la fasciano come la pelle di un serpente sul davanti e sul retro, entra e si impadronisce del pubblico, ovviamente in stragrande maggioranza formato da inconditionelles, i quali già le urlano “brava” al solo sporgere della scarpa all’ingresso dal palco di proscenio, di solito riservato alla sovrintendenza.

E quindi spiazza tutti, e sopra tutti i suoi potenziali detrattori, quelli che son venuti non già per buhare, ci mancherebbe: correrebbero il serio rischio di essere linciati seduta stante e coram populi, ma pronti a ridacchiare, sotto i baffi o dietro le velette, a lanciarsi tra loro sguardi di complice compatimento ed irrisione per la esibizione caduca della ex grande dama.

Quale colpo inaspettato! La Signora ci si presenta in forma vocale strepitosa, domina perfettamente tutte le dinamiche, la voce non le oscilla, l’acuto –preso sia dal basso, come è sua inveterata consuetudine, ma anche di petto e di getto- è lì sicuro e fermo fino ad un notevole RE sovracuto lanciato a fine concerto sull’ultimo dei sei bis che, se il pubblico avesse insistito, sarebbero potuti diventare dodici poiché la Grubby, scaldata la voce, era ormai lanciata come un panzer imbattibile, sebbene vezzosamente facesse il gesto di dire “ma basta, cari, non applauditemi più: son stanca” quando, molto probabilmente, era solo affamata e desiderosa di raggiungere al più preso il ristorante in Galleria dove, di fatto, è poi stata sorpresa a cenare tra amici.

Chi si aspettava da lei i vizzi ed i vezzi, e ciò a seconda dell’ottica e dell’udito di chi ascolta, che hanno in parte condito e caratterizzato la sua precedente performance scaligera, due anni fa, è rimasto sostanzialmente deluso. Là erano le regine donizettiane, e che regine! Qui era la composta, ma assai partecipe, concertista: musicalmente precisa, ineccepibile tanto nell’intonazione quanto curata nel dare compostezza alla frase cantata, senza rinunciare a recitare, da par suo, con una mimica impagabile sia nell’evocare momenti nostalgici, sia nell’essere spiritosa ed anche autoironica.

E dunque le canzoni russe di Ciaikovski e di Rimski-Korsakov e le melodie tzigane di Dvorak sono state esposte con sapiente e mutevole eleganza e duttilità vocale, quanto han brillato nella seconda parte i fiori di Richard Strauss ed i quattro Lieder di Mahler. Complice il connazionale pianista Peter Valentinovic, che dir bravo è dir poco, il quale oltre a seguire sospiro dopo sospiro, acuto dopo acuto la Grandissima, ha messo del suo nel far percepire ritmi e colori di musiche che gli sono evidentemente familiari.

Si è così giunti, non senza qualche mal celato sbadiglio da parte di alcuno, al fatidico ed attesissimo momento dei bis, una volta completato il programma ufficiale. E anche qui la Nostra ha voluto distinguersi. “Vi aspettate Linda o Lucia? Olympia o piuttosto Zerbinetta? Ed io vi canto invece ed ancora due Lieder di Mahler”. Tié!

E dunque quando tutti ormai erano rassegnati al fatto che la serata sarebbe finita “Mahler”, eccoti il colpo di coda: al terzo bis attacca un “Signore ascolta!” di eterea trasparenza, filato e tenuto come un’aria da salotto con un sospiro di voce, che però arriva fino in piazza del Duomo e che si rinforza nell’acuto fermo e lanciato su fiati lunghissimi e portentosi. E viene giù il teatro, per altro ancora straripante di pubblico. Poi un signore da un palco di secondo ordine le grida “Dich, teure Halle, bitte” e lei, come non aspettasse altro, attacca l’ingresso di Elisabeth del Tannhäuser con un piglio tale da sbalordire tutti, forse quel signore per primo, come se in vita sua non avesse cantato altro.

A questo punto poteva capitare di tutto, che cantasse una canzone di Edith Piaf, “No je ne regrette rien” tanto per dirne una, o di Orietta Berti “Fin che la barca va”, perché come si recitava in un celebre Carosello protagonista Virna Lisi: “Con quella bocca può dire (cantare) quello che vuole”! Ci ha invece regalato un insolito Bacio, la romanza dall’opera del suo connazionale Smetana. Delirio in sala: al continuo e ritmato appello “Edita! Edita!” inframezzato ad isteriche richieste di bis ha finalmente ceduto con un brano che ci ha riportato, lei e noi, agli anni della giovinezza, che poi sono quelli del cuore e, nel suo caso, di un’eterna ragazzina. “Mein Herr Marquis”, l’aria della “risata” di Adele nel Pipistrello, con la partecipazione vocale inaspettata, giocosa oltre che gioconda, del pianista che fungeva da coro, ha concluso una serata memorabile, che passerà alla Storia del Teatro milanese e di cui, con orgoglio e senza pregiudizio, si potrà dire impiccionescamente: “C’ero anch’io!”.

Andrea Merli

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