PARMA: Anna Bolena 12 gennaio 2017

PARMA: Anna Bolena 12 gennaio 2017

ANNA BOLENA

Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani

Musica

GAETANO DONIZETTI
Casa Ricordi, Milano

 

Maestro concertatore e direttore: FABRIZIO MARIA CARMINATI

Regia: ALFONSO ANTONIOZZI

Personaggi e Interpreti:

  • Anna Bolena, moglie di Enrico VIII:  YOLANDA AUYANET
  • Enrico VIII, re d’Inghilterra: MARCO SPOTTI
  • Giovanna Seymour, damigella di Anna: SONIA GANASSI
  • Lord Rochefort, fratello di Anna: PAOLO BATTAGLIA
  • Lord Riccardo Percy: GIULIO PELLIGRA
  • Smeton, paggio e musico della regina: MARTINA BELLI
  • Signor Hervey, uffiziale del re: ALESSANDRO VIOLA

Scene e video design: MONICA MANGANELLI        

Costumi: GIANLUCA FALASCHI

Luci: LUCIANO NOVELLI

Movimenti coreografici e assistente alla regia: SERGIO PALADINO

Maestro del coro: MARTINO FAGGIANI
ORCHESTRA REGIONALE DELL’EMILIA ROMAGNA

CORO DEL TEATRO REGIO DI PARMA

Nuovo allestimento

In coproduzione con Teatro Carlo Felice di Genova

 

  Anna Bolena, oltre a segnare una sorta di spartiacque nella produzione donizettiana, consacrando definitivamente l’Autore al dramma romantico dopo la feconda sua permanenza napoletana, ha avuto un percorso non indifferente nell’impiccionesca frequentazione. Ne tiravo le somme l’altra sera a Parma, prima che iniziasse lo spettacolo, riflettendo sugli oltre quarant’anni di assenza del titolo dalla scena del Teatro Regio. Lasso di tempo che, anno più anno meno, coincide con il mio primo approccio, ma in quel di Ferrara durante una gita “sociale” organizzata dall’Associazione delle Gioventù Musicali di Trieste, presidentessa l’ineffabile Signora Lana e in compagnia dei miei compagni di avventura di quel bel tempo andato: Rino Alessi, Franca Comisso, Mila e Franco ed un lungo eccetera di entusiasti melomani. Bei ricordi quelli di una recita con una Ricciarelli in pieno fulgore nel ruolo del titolo, con una potente – e simpaticissima – Bianca Berini, nei panni di Seymour, la quale soggiornando nello stesso albergo si prestò, da brava triestina patocca, a chiacchierare allegramente con noi.

Poi fu la volta di una recita al Liceo di  Barcellona in un freddo 2 di gennaio del 1982, con la debuttante Caballé, che si provava così nel titolo prima di affrontarlo poi burrascosamente alla Scala, nell’aprile dello stesso anno, quando la recita fu sospesa dopo un’ora abbondante di contestazioni a cui avevano cercato di porre freno prima la Simionato quindi la Tebaldi, presentandosi inutilmente in proscenio tra bordate di fischi ed urla. Tra queste ultime, il grido “Giulietta, non farti strumentalizzare!”, lanciato dal compianto amico Eugenio Laguri in piedi al mio fianco in loggione, fu forse uno dei meno feroci. Passata alla storia come caso più unico che raro di pubblico imbestialito per la proposta di una sostituzione “last minute” dell’attesissima diva catalana.

Ne son passate, nel frattempo, di Bolene in abbondanza. Non di meno è sempre titolo che crea conflitti, anche quando le carte sul tavolo paiono assolutamente vincenti. E non solo perché l’imprevisto – a Parma la sostituzione del tenore Maxim Mironov, ammalatosi dopo la “generale”, sostituito dal pur valente e coraggioso Giulio Pelligra – è purtroppo sempre dietro l’angolo, specie nella stagione invernale facile alle influenza, ma per un altro genere di “influenze” che creano un clima di tensione, di prevenzione a dirla tutta, che certo non giova né alla tranquillità degli esecutori, né ad un ascolto rilassato e felice.

Lo si è percepito in teatro per i sibili di zittio rivolti quasi da subito alla direzione d’orchestra, solida, affidabile e soprattutto mirata alla quadratura musicale ed al sostegno delle ragioni del canto, cosa non trascurabile in una situazione di emergenza e quando l’opera è basata quasi esclusivamente sulle ragioni ineludibili del puro Belcanto, e anche agli interpreti: dopo il primo duetto tra Enrico e Seymour ai primi applausi, di nuovo cercati di soffocare da parte dei più ostruzionisti, il grido di un “bravi” è stato puntualmente seguito da un perfido “bravi chi?”, assai sintomatico e proveniente, come poi gran parte dei “buh” finali, dalla prima fila di platea.

In questo contesto “tipicamente parmigiano”, che la recita sia seguita senza inciampi, anzi con crescenti applausi dopo i canonici pezzi chiusi, poteva illuderci che le acque si fossero calmate, ma risaputamente sono le acque chete quelle che fan crollare i ponti e infatti a fine recita, dopo l’accoglienza con punte di entusiasmo alla brava protagonista, la squisita Yolanda Auyanet debuttante di ruolo, la calorosa accoglienza al tenore Pelligra, meritevole di aver salvato la serata, all’autorevole Enrico di Marco Spotti ed alla convincente Seymour di Sonia Ganassi, che per altro  giocavano in casa, le ire funeste si sono abbattute prima con un assaggio sul direttore, infine in un crescendo di urla sui fautori dello spettacolo.

Intendiamoci, in teatro basta una dozzina di “urlatori” a far sembrare che crolli il mondo. In realtà i “buhh” si son fatti strada tra scroscianti applausi e sono stati accolti col sorriso sulle labbra in primis del regista che un po’ se l’aspettava visto che pochi giorni prima, mentre stava tranquillo al ristorante, era stato aggredito da una “cara signora” che in largo anticipo espresse il suo disappunto. Tal dei tempi, e della maleducazione imperante, è il malcostume.

Ora, cercando di fare impiccionescamente, oltre che la cronaca, il bilancio dello spettacolo va detto che la regia mi ha lasciato perplesso. E’ innegabile che ci sia stato un lodevole ed evidente lavoro sui personaggi, i quali nonostante l’estenuante lunghezza delle relative parti in situazioni drammaturgicamente assolutamente statiche, sono stati fatti interagire tra loro con una individuabilità riconoscibile ed apprezzabile; qui si è vista la zampata di chi la scena l’ha vissuta sulla propria pelle e conosce a perfezione tempi e modi per far teatro. A differenza di quanto accadde con il riuscitissimo Roberto Devereux genovese, pesa un uso della figurazione – otto mimi divisi equamente tra uomini e donne, in verità assai bravi anche nei movimenti coreografici, istruiti da Sergio Paladino – che è sembrata a tratti un “riempitivo” inutile e anche fuorviante. Per esempio nella animazione della sinfonia, ma anche in altre situazioni: il gioco delle coppiette nelle stanze di Bolena all’arrivo dell’incauto Smeton all’inizio del secondo atto. Se l’idea di trasformare il trono su cui siede Anna in un groviglio umano instabile da cui spuntano minacciosi becchi ed artigli ha funzionato ed era facilmente individuabile, molto meno i riferimenti allo spirito diabolico di Enrico.

L’impianto scenico imposto dalla povertà dei mezzi, genovesi parmigiani ma in generale italiani, a disposizione e col concetto che debba servire per completare la donizettiana trilogia Tudor, funziona assai bene, qui come a Genova. I pochi elementi corporei “goticheggianti” svolgono alla perfezione la loro funzione nella suddivisione degli spazi e nella creazione degli ambienti; arricchiti da belle proiezioni, illuminati con maestria, bastano ed avanzano in un’ottica che mantenendosi nell’alveo della tradizione si sposa con l’innovazione. Lode a Monica Manganelli, per le scene e video, ed a Luciano Novelli per l’illuminazione.

Deludenti sono stati, invece e soprendentemente, i costumi firmati dal pur bravissimo Gianluca Falaschi che ci ha abituati, forse, troppo bene con la grandiosità, fantasia ed originalità di precedenti sue creazioni. Penso, per fare un solo ma significativo esempio, alla bellezza di quelli che hanno caratterizzato La grotta di Trofonio, visti a Martina Franca prima e rigoduti a Napoli recentemente.

Attualizzare l’azione, agli anni Trenta dello scorso secolo in questo specifico caso, giova sicuramente alla recitazione, che può essere così più spigliata e naturale nei movimenti. Nè stiamo qui a rimpiangere le gorgere ed i guardinfanti che comporterebbero, tra l’altro ed evidentemente, altri ed alti costi. Più che la decisione di vestire il coro da gran sera, le donne elegantissime e pure sobrie in lungo ed in grigio, i maschietti in frac, è stato l’abbigliamento dei tre protagonisti a lasciare perplessi.

Anna veste un abito prima rosso e quindi identico, ma bianco per la scena finale; la stoffa è un rasatello brillante con un motivo a nido d’ape; il taglio, stringendole la vita, mette in evidenza il fianco generoso al pari del generosissimo decolté dell’interprete. Non l’aiutano la parrucca, che la invecchia ed una sorta di sciarpa nera – tale è parsa – che le avvolge il collo. Enrico ci si presenta a collo sciolto indossando una vistosa vestaglia di velluto viola con strascico, ricamata sul dorso con un’aquila le cui piume paiono quelle del pavone. Bellissima, certo, ma forse più adatta a scendere le scale in una rivista anni cinquanta. Infine nella scena di caccia arriva con la corona in testa e veste un doppio petto gessato e sopra un pelliccione d’orso con tanto di martingala, che gli arriva ai piedi. Infine Seymour, per contrasto con la rivale Anna, indossa un abitino nero cui manca solo il grembiule e la cresta bianca per sembrare una cameriera. La storia tramanda di una giovane assai semplice di gusti, proveniente dalla nobiltà campestre; pare che fosse il contrasto con la pretenziosa Bolena ad affascinare Enrico. Ma siamo pur sempre in un contesto operistico e teatrale che con la verità storica ha poco e nulla da spartire. Si tratta di due prime donne che si fronteggiano ad armi pari; se il messaggio voleva essere quello di “Eva contro Eva”, tanto per fare un riferimento cinematografico, forse doveva essere più esplicito.

Insomma, per concludere, la sensazione avuta è che a quest’opera Antoniozzi ci abbia creduto poco e che, pur lavorandoci alacremente, non l’abbia “sentita” e non l’abbia convinto. Di certo, al di là delle mie osservazioni, non meritava quelle sonore contestazioni sebbene, vista la situazione, possano essere esibite come medaglie conquistate vincendo una battaglia.

Sul piano squisitamente musicale, sugli scudi la bravissima debuttante Yolanda Auyanet che ha il gran pregio di non rifarsi a nessun campione precedente, Callas in primis, e che sigla con sicurezza e tenuta musicale di altissima professionalità un ruolo “monstre”. Cantando con grande sensibilità, fraseggiando con forza e vigore, accentando e scolpendo la parola cantata anche in zona centrale e grave.

Sonia Ganassi, con impeto quasi sopranile, risulta convincente per l’interpretazione sottile, mirata e stilisticamente centrata. Marco Spotti è andato in crescendo nel corso della serata confermandosi un artista di vaglia. Del tenore Giorgio Pelligra ho già detto: oltre a salvare la serata, ha dimostrato una scioltezza in scena davvero encomiabile per essersi inserito all’ultimo minuto e la sua vocalità, facile e ben proiettata in alto, è adattissima al ruolo che fu di Rubini. Lieta sorpresa il piacevolissimo ed assai ben cantato Smeton di Martina Belli, mezzosoprano qui in pantalone “palazzo” e non travestita da ragazzo. Oneste le parti di fianco e ottimo il coro diretto, ancora una volta, dall’inappuntabile M° Martino Faggiani.

Dell’orchestra dico che si è destreggiata con ottimi risultati e di Fabrizio Maria Carminati ribadisco l’ottima tenuta e la lettura teatralmente efficace. In quest’opera, più che in altre, il direttore deve porsi al servizio delle voci: questa consapevolezza è la sua forza.

PS: Un lettore attento – sono i più ambiti e preziosi – mi ha fatto gentilmente notare che non ho accennato ai “tagli” eseguiti, i quali secondo la sua rispettabilissima opinione, per altro condivisa da tutti gli “integralisti”, non solo donizettiani, vilipendono un’esecuzione assai più di una pur esecrabile messa in scena.

Grave omissione la mia, lo ammetto e solo in parte giustificata dal fatto che il tempo per scrivere questi “pochi versi” l’ho trovato sull’interegionale tra Ancona e Forlì, questa innevata domenica mattina. Come potrete constatare dall’audio ora messo a disposizione, possiamo dormire sonni tranquilli: qualche taglio, davvero trascurabile a mio modesto avviso, nelle riprese di cabalette e nelle strette. A beneficio degli esecutori e, soprattutto, della maggioranza del pubblico, in specie quello parmigiano votato in gran parte ad un Verdi tagliato con l’accetta pur di sentirlo più ruspante. Il teatro ed il disco, parafrasando Canio, non son la stessa cosa: se a casa l’opera la puoi ascoltare in comode rate, in teatro un primo atto che dura oltre un’ora e trenta mette in seria difficoltà non solo chi soffre alla prostata o assume diuretici. E poi, concordo con l’Antoniozzi, la vituperata edizione scaligera, ridotta a selezione dal buon Gavazzeni nonostante la presenza di quel popo’ di cast, teatralmente fila via liscia come l’olio. E non è cosa da poco.

Andrea Merli




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