NOVARA – TEATRO COCCIA – AIDA 2016
AIDA
Opera in quattro atti
Musica di Giuseppe Verdi, su libretto di Antonio Ghislanzoni
da uno scritto di A.Mariette elaborato da C.Du Locle
Prima rappresentazione: Il Cairo, Teatro dell’Opera, 24 dicembre 1871
Regia: Piero Maranghi e Paolo Gavazzeni
Direzione d’orchestra: Matteo Beltrami
Personaggi e Interpreti:
- Aida: Alexandra Zabala
- Amneris: Sanja Anastasia
- Radamès: Walter Fraccaro
- Amonasro: Elia Fabbian
- Ramfis: Antonio Di Matteo
- Il re: Gianluca Lentini
- Un messaggero: Murat Can Guvem
- Una sacerdotessa: Marta Calcaterra
Scene e costumi: Leila Fteita
Lighting designer: Angelo Linzalata
Coreografie: Simona Bucci
Orchestra del Conservatorio G. Cantelli di Novara
Coro San Gregorio Magno e Coro del Ticino
Produzione Fondazione Teatro Coccia Onlus
Progetto lungamente accarezzato e fortemente voluto, Aida ha inaugurato trionfalmente la stagione del Teatro Coccia a Novara. Scommessa vincente quella della direttrice del teatro, Renata Rapetti coadiuvata dal direttore artistico per l’opera, il regista Renato Bonajuto e dal direttore musicale principale, Matteo Beltrami, in un’impresa non priva di rischi e di imprevisti.
Mettere in scena l’opera di Verdi, che certo ha una sua “intimità” riconoscibile e ben superiore alla celeberrima “grandiosità” della Marcia trionfale del secondo atto, scena “areniana” quasi per definizione, in un teatro di tradizione che non possiede organici stabili come è regola nelle più prestigiose fondazioni, è di per sé un gesto che rasenta la follia o, almeno, la irresponsabilità. Ma stanno proprio in ciò quei “miracoli all’italiana” a cui si assiste sempre più spesso nella sana, sebbene dati i tempi non più “dorata”, provincia vogliosa di emergere, di conquistare pubblico e spazio; dove il “provincialismo” si traduce positivamente nell’entusiasmo, nella voglia di fare e di superarsi e non è vissuto come dipendenza culturale di mode e di correnti intellettualoidi, quando non di asservimento agli sciagurati modelli della Regietheater tanto in voga oltralpe. Qui si è, necessariamente, pratici e pragmatici: il rispetto reverenziale degli Autori, dell’opera che va esaltata nelle sue eccelse qualità e non mortificata con narcisistici exploits buoni solo a far luce su personaggi esaltati dalla pretesa originalità, va a braccetto con una contabilità con cui non si scherza, che si deve far quadrare e che comporta l’adempiere all’impegno con il pubblico e con gli artefici dello spettacolo, dal primo all’ultimo, dal sarto al macchinista, dal regista al direttore d’orchestra. Teatri dove lo sbigliettamento, per intenderci, ha ancora la sua determinante importanza, dove aggiungere una recita – come è avvenuto in questo caso – risponde ad una richiesta urgente del pubblico.
Il lungo preambolo si rende necessario per chi, come il sottoscritto e molto impiccionescamente, ha seguito da vicino la genesi dell’opera.
Iniziando dalla scelta di un cast, dove si è puntato su artisti emergenti, cercando di dare spazio e valorizzare potenzialità che altri teatri non sono in grado di intuire e cogliere, affiancandoli a professionisti di lunga e collaudata carriera, specialisti dei rispettivi ruoli. Cercando nei valori locali, la stupefacente per bravura e disciplinata partecipazione Orchestra del Conservatorio G. Cantelli, i cori San Gregorio Magno e Coro del Ticino, quella forza e quel sostegno che spesso latitano in formazioni consolidate, affidando la regia a due uomini di teatro, di diversa provenienza ma di medesimi intenti: quelli che hanno condotto ad una lettura lineare, drammaticamente incalzante e visivamente elegantissima di un’opera in preda spesso ad un esotismo da circo o, peggio, alle stramberie di una “modernità” che ormai è più convenzionale delle vecchie tele dipinte prese in affitto da Sormani nel bel tempo andato.
Dello stesso parere e per una volta assolutamente concordi su tutto, un melomane conosciuto nell’ambiente milanese e non solo, attivamente partecipe nel forum d’opera del sito “rivale” – in realtà viviamo d’amore e d’accordo – Operaclick dell’amico Boaretto: Marco Vizzardelli. Ed è con piacere che gli cedo la parola, riportando parte della cronaca che ha scritto a caldo –e non “a tiepido” come questa mia- il giorno appresso alla “prima” novarese.
“Vuoi vedere che il Teatro Coccia di Novara ha allestito la più significativa Aida andata in scena in un teatro italiano da molti anni a questa parte? Direte: le classifiche e i paragoni non hanno senso. Quel che è certo è che l’Aida vista, in prima, a Novara venerdì sera trasuda e rimanda una straordinaria energia, in una evidente partecipazione di tutte le parti al progetto comune. E’ un’ Aida voluta, pensata, progettata, motivata al di sopra ed al di là di qualunque routine (pericolosa e frequente in un titolo tanto diffuso), con una voglia di farla, e di farla bene, che dal teatro e nel teatro ha coinvolto tutti coloro che l’hanno realizzata, musicalmente e scenicamente: e tutto questo – e alla fine è l’essenziale – “passa” al pubblico con forza dirompente.
Tramite musicale del tutto è Matteo Beltrami, qui ad avviso di chi scrive, approdato ad una delle sue prove più alte nel senso di quel far musica e “montare” una realizzazione musicale “portando” al risultato, e ad una propria idea precisa, tutto il cast e l’orchestra ed il coro: il livello raggiunto dall’Orchestra del Conservatorio Cantelli di Novara e dai Cori San Gregorio Magno e del Ticino (maestro Mauro Rolfi) testimonia un pazzesco lavoro di preparazione, che si fa risultato artistico. Basterebbe citare, in orchestra la profusione di colori, l’esattezza del ribattuto guerresco degli ottoni (atto primo, fin dall’introduzione a Celeste Aida, scena del trionfo impressionante, e ancor più accompagnamento a Nel Fiero Anelito), lo slancio lirico degli archi ove occorra; e nel coro (ma in tutti) la parola, la chiarezza assoluta e la drammaturgia del “dire” (e questo è Verdi!): sì che i concertati ne escono come radiografati. Preparazione, studio, risultato: così si fa l’opera, portando i complessi ed ognuno, con studio e preparazione a superare se stesso. Operazioni in cui Beltrami ha, a quanto ci consta, pochissimi paragoni fra i direttori della sua generazione, e non solo. Quando “fa nascere” uno spettacolo suo dall’inizio, Beltrami (ne abbiamo avuto tante e tante prove) approda a questo tipo di esiti.
Come è la sua Aida? Negli ultimi anni siamo bombardati da dichiarazioni sulla “riscoperta” del cosiddetto “lato intimo” di Aida (come non ci avessero già pensato Abbado e Karajan anni ed anni fa): ne son sortite diverse Aidine decadenti, svenevoli, “intimiste”. Dimenticando che si tratta di un’opera di guerra, di trionfo, di sconfitta, di rudezza militare, di crudeltà sacerdotale. E dimenticando che Verdi è sempre e comunque dramma, teatro, teatro e ancora teatro. Matteo Beltrami ci dà il teatro e la guerra (senza tralasciare la vicenda dei singoli, il dramma dell’anima) in una scansione scorrevole, mobilissima, a tratti incandescente (finale del trionfo, travolgente). Non calca la mano sull’esotismo (ma le danze sono eseguite con grande eleganza), fa fremere, di vita e poi di morte, la vicenda. Verdi è drammaturgo in musica: se il trionfo non è trionfo, muore il successivo atto del Nilo (accadeva, purtroppo, nell’ultima, smorta Aida scaligera). Beltrami lo sa, e muove tutto di conseguenza. Dal sogno iniziale di Radames al calare della fatal pietra sugli amanti, il dramma ne esce perfettamente “conseguente”.
Questa Aida è una scommessa vinta fin nella scelta di una protagonista che l’anno scorso cantò, qui a Novara, la Corinna del Viaggio a Reims: vince, anzi, stravince l’Aida di matrice lirico-belcantista di Alexandra Zabala, e vince perché canta benissimo, filando, rafforzando e smorzando, e perché “nel canto” trova il personaggio, restituendolo delicato e forte, trepidante. Va bene, a questo punto, il rapporto musicalmente dialogico con la vocalità robusta, “militaresca” (il lato guerriero dell’opera) di Walter Fraccaro-Radames, che pure apprezzabilmente si piega a lirismo nel finale, non facile per una vocalità “materica” quale la sua. E’ vibrante l’Amneris di Sanja Anastasia (con le due donne, Beltrami costruisce benissimo il duetto, trepidazione di Aida, insinuazioni, tranello poi furia della rivale). A posto l’Amonasro di Fabbian, il Ramfis di Di Matteo, bene il Re di Gianluca Lentini. Si sente, nel cast, l’adesione ad un progetto musicale. Ed è la forza di cui parlavamo.”
Il buon “Vizza” continua, poi, con le dovute lodi a Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, “militanti dell’opera, e si vede” che ridonandoci un’Aida essenzialmente sobria, ci evitano inutili trionfalismi e la “paccottiglia egizia” da negozio di souvenir cinese o pachistano.
In effetti le scene, costituite da pilastri mobili e scalinate color sabbia con un attrezzo essenziale e puntualmente utile alle sottolineature drammaturgiche in corso d’azione, ed i costumi firmati da Leila Fteita, contribuiscono in maniera determinante alla riuscita dello spettacolo, creato tutto nei laboratori del Coccia giova ripeterlo. E determinanti sono pure, oltre all’ottima distribuzione delle luci dovuta ad Angelo Linzalata, le fantasiose ed originali coreografie create da Simona Bucci assecondata da un ottimo manipolo di danzatori e da uno stuolo di bambini i quali, istruiti dagli adulti, hanno trasformato la “danza dei moretti” in una “scuola di guerra” rappresentata davanti ad Amneris al posto dei soliti saltelli di scimmiette che con una punta di velato razzismo vengono più spesso ammannite.
Personalmente, infine, spendo qualche aggettivo in più per l’Amonasro di Elia Fabbian, a posto e centrato nel ruolo del “padre padrone” certo, ma anche cantato con dovizia di mezzi che ci rimandano a quella “baritonalità” all’italiana di cui, di fronte a tanti mancati tenori, si sente spesso la mancanza. Idem per il poderoso Ramfis di Antonio Di Matteo, il basso salernitano appena 26enne che, come ebbi modo di scrivere e dire in altre occasioni, “tiene in corpo una cooperativa di bassi”. Suono rotondo, pieno, poderoso, autentico nelle note gravi. Deve solo lavorare un po’ il settore acuto e, trovandone la via più sicura, avremo un nuovo Giaiotti! Due parole, infine, per la intonata e ben emessa Sacerdotessa di Marta Calcaterra, novarese puro sangue e bel timbro quello del Messaggero, il tenore turco Murat Can Guvem. Ottimo Re, dal colore baritonale di Gianluca Lentini. Degli altri tre, Alexandra Zabala, Walter Fraccaro e Sanja Anastasia, confermo quanto scrive il Vizzardelli e aggiungo solo che al soprano colombiano, italiana ormai a tutti gli effetti, in corso di recita è stato affibbiato il nomignolo “Zaballé”, senza alludere ovviamente al fisico. E dunque, per concludere con la lingua di Cervantes, sobran comentarios.
Andrea Merli