Teatro alla Scala – I DUE FOSCARI – 1 Marzo 2016

Teatro alla Scala – I DUE FOSCARI – 1 Marzo 2016

Giuseppe Verdi

I DUE FOSCARI

opera in tre atti

su libretto di Francesco Maria Piave

 

Direttore: Michele Mariotti
Regia e scene: Alvis Hermanis

Personaggi e Interpreti:

  • Francesco Foscari: Plácido Domingo (25 feb.; 1, 4, 9, 12 mar.), Luca Salsi (15, 18, 22, 25 mar.)
  • Jacopo Foscari: Francesco Meli
  • Lucrezia Contarini: Anna Pirozzi
  • Jacopo Loredano: Andrea Concetti
  • Barbarigo: Edoardo Milletti
  • Pisana: Chiara Isotton
  • Fante: Azer Rza-Zade*
  • Servo: Till Von Orlowsky (25 feb.; 9, 12, 15, 18, 22, 25 mar.), Modestas Sedlevičius (1, 4 mar.)

*Allievi dell’Accademia Teatro alla Scala

Costumi: Kristīne Jurjāne
Luci: Gleb Filshtinsky
Coreografia: Alla Sigalova
Video: Ineta Sipunova
Drammaturgo: Olivier Lexa

Passata la solita buriana della “prima”, dove la nuova produzione de I due Foscari è stata accolta con un successo contrastato, come si dice in questi casi, da bordate di fischi e buh rivolti nell’ordine al soprano protagonista, al direttore d’orchestra ed al Maestro del coro, scambiato per il regista (cogliamone il lato più che comico grottesco) alla seconda recita, presente in sala il turno A – come dire quello che conta di più – il trionfo è stato sottolineato, oltre che dal lancio atletico di mazzi di fiori da parte di un signore dalle prime file di platea, da ripetute chiamate ed insistite grida di bravo distribuite indistintamente a tutti, il regista essendo, ovviamente, assente giustificato.

148_K65A9431E dunque, fu vera gloria? Forse no. Di questa nuova produzione, a dire il vero, non se ne sentiva l’urgenza – almeno da parte del sottoscritto che pure quest’opera adora – poiché si poteva benissimo riprendere quella che aveva visto la luce nel 2003 e che fu riproposta appena sette anni fa – o mamma come vola il tempo: sembra ieri! – con le scene di Maurizio Balò e la regia di Cesare Lievi. Spettacolo, a dirla tutta, che nella sua modestia aveva fatto rimpiangere quello firmato in toto da Pier Luigi Pizzi nell’ormai lontano 1978, ripreso nel 1988, in cui si alternarono nella parte del Doge: Cappuccilli, Nucci e quindi Bruson, per tornare poi, di nuovo e per ben due volte, a Nucci sia nel 2003 che nel 2009.

173_K61A7706Questa di Alvis Hermanis, che pure l’anno scorso aveva segnato un bel punto a suo favore importando alla Scala un’imponente produzione di Die Soldaten, è la tipica occasione mancata. A quanto si legge dal programma di sala, non gli sono stati di grande aiuto né un lungo soggiorno veneziano, precedente all’impegno registico, per imbersi, oltre che dell’aura lagunare, delle bellezze pittoriche del Carpaccio, di Gentile e Giovanni Bellini piuttosto che del Tintoretto e di Francesco Hayez, né men che meno la figura del drammaturgo, da qualche tempo in qua introdotta pure alla Scala per mantenersi al passo dei tempi ed in linea con i teatri del nord Europa, al secolo Oliver Lexa, giovanissimo musicologo esperto di Francesco Cavalli ed a sua volta regista, che in un saggio introduttivo dal suggestivo titolo “dal declino al sogno” ci spiega la regia.

176_K65A9516In realtà si tratta di uno spettacolo banale più che convenzionale, assolutamente privo di un’idea registica e nemmeno fedele alla drammaturgia originale, condito da controscene ridicole che denotano solo l’horror vacui del regista, a cui pare urgente condire ogni sortita solistica con irritanti movimenti affidati a mimi e ballerini: i gondolieri danzanti o, piuttosto, il consiglio dei dieci con l’incursione della Banda Bassotti di disneyana memoria. Nullo è parso il lavoro sui solisti, abbandonati alle proprie individuali capacità, salvo obbligarli a star seduti su dei leoni semoventi di cartapesta, in una sorta di autoscontro da fiera, o presentandoci la scena finale col Doge dormiente, e quindi morente, in camicia da notte su un letto a baldacchino in proscenio ed illuminato a giorno. Sullo sfondo teli dipinti riproducenti malamente i quadri dei citati sopra, siparietti e quinte che si aprono e chiudono senza logica e proiezioni in bianco e nero di scorci di Venezia che ci hanno rimandato alle immagini televisive dell’intervallo RAI del bel tempo andato, quelle che avevano per sottofondo la toccata in LA maggiore per arpa e orchestra di Pietro Domenico Paradisi. Delle luci, a firma di Gleb Filshtinsky si è già detto: erano perennemente accese, senza tener conto che si tratta di un’opera la cui “tinta” è molto fosca. I costumi sono parsi inutilmente sfarzosi, al punto che la Pisana, che prevedibilmente è una fantesca in casa Contarini, è vestita con tale sfarzo da essere confusa, al momento della ribalta finale con la protagonista, a sua volta agghindata sempre a festa. Anche Jacopo, pur destinato all’esilio e prima torturato in carcere, è sempre impeccabilmente vestito di damaschi e velluti: complimenti a Kristine Jurjane che li ha firmati.

I due Foscari

Sul versante musicale le cose sono andate decisamente meglio. Con un handicap, però: l’assenza di un vero baritono nel ruolo di Francesco. Placido Domingo, pur stando alla data ufficiale di nascita, possiede una vocalità incredibilmente ferma, una proiezione invidiabile ed è un portento in scena, possedendo un carisma indiscutibile e catalizzando l’attenzione ogni qualvolta è sul palcoscenico. E’ Placido Domingo, e tanto basti: non più tenore, ma nemmeno il baritono che la parte esige. “Prendere o lasciare” e pur avendo applaudito con sincera ammirazione, per il doveroso rispetto e per la gloria di una carriera che più che nella storia è ormai entrata nel mito, ora s’impone il ritorno per le recite in cui al suo posto ci sarà Luca Salsi, il quale compenserà con una prova che ci e gli si augura ugualmente maiuscola lo squilibrio timbrico. Che poi Domingo sia un richiamo calamitoso, che sia l’artista che tutti apprezziamo e che nella scena che precede la morte riesca ad essere imperioso sia intonando “Questa è dunque l’iniqua mercede” che la successiva stretta “D’un odio infernale”, è pacifico e a quel punto ci si arrende tutti, senza se e senza ma.

I due Foscari

Bene, benissimo il giovane e sfortunato Jacopo, che in Francesco Meli – già apprezzato con Domingo nell’edizione di Londra diretta da Pappano e vista al cinema – trova per voce, colore e temperamento l’interprete ideale. Giocata sul passaggio, la difficoltà della parte sta, in realtà, nel trovare l’accento della disperazione e della fatalità, oltre che la dolcezza del rimpianto verso la moglie, i figli e l’amato padre. Meli si disimpegna con varietà di fraseggio e con una vocalità precisa nella scansione della parola cantata. Lo aiuta, a rendere il personaggio completo, la figura che, per altro e di nuovo, la regia non sfrutta nelle sue potenzialità attoriali.

I due Foscari

In ciò maggiormente sfavorita Anna Pirozzi, al suo debutto in Scala e di ruolo, che affronta la parte in assoluto più complicata e difficile scritta da Verdi per la sua corda. Si richiede un canto di forza, con acuti lanciati allo sbaraglio su pieni d’orchestra, e nel contempo un canto sfumato, ricco di agilità, trilli e tutte le virtù del Belcanto, ancora di impronta rossiniana e donizettiana. La Pirozzi ne esce a testa alta, ma ancora intimorita alla seconda recita. Quasi stesse misurando le sue forze e capacità, che sono quelle di una cantante solida dalla voce importantissima, più volte apprezzate in altri palcoscenici: mi riferisco, in specie, alla relativamente recente Elisabetta nel Devereux a Bilbao. E’ andata assai bene nel primo cantabile “Tu al cui sguardo onnipossente” e pure nella cabaletta “O patrizi, tremate … l’Eterno” dove, per la verità, mi sarei aspettato uno dei suoi potenti  e squillanti Do acuti in chiusura. Comprensibile e giustificabile la prudenza, soprattutto dopo la doccia fredda che ha ricevuto del tutto ingiustamente alla “prima”. In corso d’opera è andata in crescendo e ritengo molto probabile che, una volta rilassata ed impadronitasi con scioltezza del ruolo, alle recite prossime farà di volta in volta in meglio. E’ un’artista in cui credo, che va sostenuta, incoraggiata e da cui è lecito attendersi tante belle future prove. Non ultima la prossima Lady a Piacenza, con l’incombustibile Macbeth di Leo Nucci.

I due Foscari

Nelle parti di fianco, un gran lusso Andrea Concetti, il perfido Jacopo Loredano: insinuante con una vocalità ambigua di basso-baritono che ben si confà al personaggio. Piuttosto flebile il Barbarigo di Edoardo Milletti, molto bene, invece, Chiara Isotton, soprano confinata in ruoli episodici, ma che prima o poi vorrei sentire in parti che possano mettere in risalto la sua bella vocalità. Puntuali, come si dice in questi casi, e ben preparati gli allievi della Scuola della Scala: Azer Rza-Zade, Fante e Till Von Orlowsky (parente del Principe del Pipistrello?!?) un Servo.

I due Foscari

Resta, dulcis in fundo, la direzione di Michele Mariotti incomprensibilmente contestata alla “prima”. Egli coglie in pieno la “tinta” verdiana, compensando la scena amorfa, scandendo dei tempi gagliardi laddove necessario, ma creando anche oasi di intensa liricità e dolcezza – per esempio la bellissima introduzione all’ingresso del Doge, dove si sviluppa uno dei motivi più commoventi dell’intero spartito – e mettendo in luce, ma in quella giusta ricca di contrasti quasi caravaggieschi, l’opera che apre finalmente il capitolo più tormentato di tutta la tipologia verdiana, quello dei padri, potenti ma infelici in moltissimi degli scultorei ritratti. Mariotti serve su un vassoio d’argento agli interpreti la possibilità di emergere al meglio delle loro possibilità e nel caso di Domingo producendosi in un vero e proprio slalom direttoriale, inseguendolo nelle sua personalissima musicalità dove molto spesso ogni relazione tra ciò che si canta e quanto scritto sullo spartito risulta puramente casuale. In grande spolvero l’orchestra, bene il coro: Bruno Casoni, pure lui accomunato nell’applauso finale senza possibilità di scambio d’identità!

Andrea Merli

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