ARCHIVIO DELL’IMPICCIONE VIAGGIATORE: Crispino e la comare
PROGRAMMA DEL FESTIVAL DELLA VALLE D’ITRIA 2013
CRISPINO E LA COMARE
Luigi e Federico Ricci
14 luglio 1977
- Crispino Tacchetto: Mario Chiappi
- Anneta: Emilia Ravaglia
- Fabrizio: Alessandro Corbelli
- Mirabolano: Angelo Nosotti
- Contino del Fiore: Gianfranco Pastine
- Don Asdrubale di Caprarotta: Bernardino di Bagno
- Lisetta: Dora Carral
- La Comare: Luisa Ciaffi – Ricagno
- Bortolo: Walter Artioli
- Orchestra e coro di Torino della RAI
- Direttore: Marco Dalla Chiesa
Capolavoro indiscusso dei fratelli Luigi e Federico Ricci, CRISPINO E LA COMARE ricompare periodicamente (e sempre troppo poco e troppo dilazionato nel tempo) sulle scene italiane. L’ultima volta a Martina Franca nella programmazione della XXXIX edizione del Festival della Valle d’Itria, il 13 luglio del 2013. Scrissi per il programma di sala questo saggio, io che del saggio ho ben poco, che ora vi ripropongo accompagnato da una versione radiofonica dell’opera, registrata alla RAI di Torino il 14 luglio del 1977, con un cast interessante, capeggiato dal baritono Mario Chiappi (Crispino) ed al suo fianco l’Annetta del soprano Emilia Ravaglia, il Fabrizio del giovane baritono Alessandro Corbelli e ancora il basso Angelo Nosotti, Mirabolano, il tenore Gianfranco Pastine, Contino del Fiore, il basso Bernardino Di Bagno, Don Asdrubale di Caprarotta, il soprano Dora Carral, Lisetta, il mezzosoprano Luisa Ciaffi-Ricagno, la Comare e il tenore Walter Artioli, il quale per inciso ci ha lasciato un gran numero di bellissime incisioni di operette, nel ruolo di Bartolo. Direttore d’orchestra: Marco Dalla Chiesa, curiosamente il nome e cognome di un mio ex compagno alle Scuole Italiane all’Estero di Barcellona, in Spagna, trattandosi logicamente di un caso di omonimia.
Buona lettura, buon ascolto e, soprattutto, buon divertimento
I fratelli Ricci e le sorelle Stolz: eran due ed or son tre, anzi quattro.
Cenni biografici di vite avventurose
Luigi e Federico nacquero entrambi a Napoli, ma da padre fiorentino, Piero Ricci musicista di vaglia, pianista e direttore d’orchestra, convolato a nozze con una bella figliola napoletana che gli fu prodiga di figli. Il maggiore, Luigi, vide la luce l’otto di luglio del 1805 e dimostrò subito di avere un bel caratterino e pure una precoce inclinazione musicale. Così pure Federico, di appena quattro anni più giovane essendo nato il 22 di ottobre del 1809, ma di carattere opposto. Più tranquillo e poi, con gli anni, si dimostrò posato e serio. Tant’è, i genitori si convinsero ad iscrivere Luigi, che non aveva ancora compiuto nove anni, al Real Collegio di San Sebastiano, avviandolo allo studio del violino. Si intuì subito, però, che il fanciullo non era tagliato per quello strumento e che la sua vera vocazione era la composizione. Nicola Zingarelli, celebre compositore e direttore dell’Istituto, spostò il piccolo luigi nella classe di Giovanni Furno, docente di armonia e clavicembalo.
Nella stessa classe, frequentata anche da Vincenzo Bellini, entrò di lì a poco Federico. Le cose andavano talmente bene che Luigi fu notato da Pietro Generali, compositore piemontese attivo in quei tempi a Napoli, il quale, fuori programma e all’insaputa dello Zingarelli, diede al talentuoso ragazzo le basi di una solida istruzione teorico musicale. Lo studio alacre e semi clandestino fruttò la composizione di una prima opera giocosa, nel 1823. L’impresario in angustie, fu spacciata al vecchio maestro, che ne rimase felicemente sorpreso, come opera del Cimarosa. Luigi Ricci assaporò in breve il sapore del successo grazie ad una serie di fortunati titoli brillanti: La cena frastornata, Il sogno avverato, L’abate Taccarella, Il diavolo condannato a prender moglie.
Dovette essere amaro il primo fiasco dell’appena 22enne compositore al Teatro Nuovo dove fu accolta assai male l’azione allegorica La lucerna d’Epitetto. L’intraprendente Luigi lasciò a quel punto il conservatorio, dove ormai aveva ben poco da imparare e s’imbattè con il primo di una lunga serie di amori. L’appariscente soprano Angiolina Gandolf era una cantante assai mediocre, ma agli occhi dell’innamorato parve bravissima. Cercò d’imporla al Teatro di San Carlo, dove il suo Ulisse in Itaca passò senza lasciar segno. Quindi la seguì fino a Trieste, dove al Teatro Grande la bella Angiolina tentò, senza riuscirvi, d’imporsi come prima donna. Infine, nel corso di una turbolenta notte, la piantò in asso in quel di Senigallia, quando entrando senza preavviso nella di lei camera, la trovò tra le braccia di un focoso amante, napoletano pure lui, che lo aveva sostituito a letto.
Parma, Roma, Torino rappresentarono le tappe della scalata del Ricci, che arrivò finalmente a Milano accompagnato dal grazioso soprano Fanny Erkelin. Eppure l’opera La neve, al Teatro della Cannobiana il 21 giugno del 1831, venne accolta … gelidamente! Ma il buon Luigi non demorse. Tre mesi dopo la sorte si ribaltò e l’11 di ottobre il Ricci fu acclamato addirittura al Teatro alla Scala con Chiara di Rosemberg, interpretata dalla celebre Giulia Grisi. Successo ancor maggiore per la successiva Un’avventura di Scaramuccia, su libretto di Felice Romani, sempre alla Scala.
Nel 1834, per il 29enne Luigi Ricci, giunse così l’ora della consacrazione. Un’incisione dell’epoca lo ritrae con i divi del tempo: Rossini, Bellini, Donizetti e Mercadante. Sull’onda dei trionfi, sulla cresta della fama, piovvero consensi sui due melodrammi giocosi: Eran due, or son tre e Chi la dura la vince.
Il vecchio monito potrebbe essere applicato al più giovane Federico, che di Verdi godette la maggior stima e la sincera ammirazione. Molto introverso e senz’altro meno avventuroso del fratello maggiore, si stava pian pianino affermando per conto suo. Nel 1835 iniziò ufficialmente la collaborazione tra fratelli, complice il “Principe degli impresari”, il milanese Domenico Barbaja, che aveva iniziato la carriera come garzone di caffè, ma che intorno agli anni 20 dirigeva i tre più importanti teatri della Penisola. Dotato di un fiuto straordinario, senza scrupoli e spinto dal maggior astro vocale del momento, Maria Malibran, scritturò in tandem i fratelli. La diva, infatti, accettò una scrittura per Napoli alla sola condizione che l’opera venisse appositamente scritta da Luigi e Federico Ricci. Un capriccio? Il risultato dei buoni uffici di Vincenzo Bellini, a cui il comune amico Florimo aveva rimproverato di non adoperarsi sufficientemente per favorire la carriera dell’ex compagno di studi? Ma poi, perché un’opera a quattro mani? Se di Luigi la fama ormai correva di teatro in teatro, Federico, che fino al momento aveva composto un paio di messe e qualche aria, era ancora ignoto ai più. Può darsi benissimo, però, che in molti sapessero che Federico contribuiva spesso alla stesura, sempre affrettata, delle opere del fratello. Si narra che quando Luigi si sedeva al pianoforte ispirato da un motivo, Federico gli si metteva accanto ed a quattro mani completavano l’armonia dando insieme forma all’abbozzo.
La Malibran, infine, stabilì pure il soggetto dell’opera: Il colonnello, su libretto del romano Jacopo Ferretti tratto dall’omonimo vaudeville di Scribe e Delavigne. Il militare del titolo suppose un ruolo “en travesti”, da maschiaccio. Carattere ambito dalle prime donne ai quei tempi, poiché solo così, vestendo in polpe, potevano esibire le gambe senza correre rischi con la censura. La sorte, però, non le fu favorevole e le giocò un tiro mancino. Si era in corso di prove, nel gennaio del 1835, quando un brutto giorno, mentre la cantante rientrava da teatro a casa, un maiale sfuggito ai macellatori si infilò tra le ruote della carrozza, che si ribaltò scaraventando la diva tra il maiale ed i cavalli. La Malibran se la cavò con un braccio rotto, ma dopo aver fatto un tentativo di prova per ottemperare il contratto, preferì rinunciare e partì da Napoli. La sostituì prontamente Carolina Hunger e la sera del 24 marzo 1835 al Teatro del Fondo il successo fu strepitoso.
Federico e Luigi si separarono nuovamente. Mentre al primo arrideva un confortante successo al Teatro San Benedetto di Venezia con il suo primo melodramma Monsieur de Chalumeaux, scritto di suo pugno su libretto sempre del Ferretti, Luigi si godette a Napoli la conquistata fama, felice a fianco di madamigella Demeric, la sua prima interprete alla Scala di Scaramuccia. Gli anni del giocoso libertinaggio milanese, quando spopolava nei salotti, parevano un ricordo. Però il ritorno a Milano fu obbligato: la nuova opera Chiara di Montalbano non ottenne il successo della precedente Chiara. Di volta, infaticabilmente, a Napoli per comporre, di nuovo a quattro mani, il Disertore per amore. L’opera fu accolta trionfalmente l’11 febbraio del 1836 e rimase per lungo tempo in cartello, specie all’estero, dove addirittura ottenne un “marchio regale” quando, in un concerto a Buckingham Palace durante il mese di giugno del 1840, un duetto: “Non funestar, crudele” fu cantato nientemeno che dalla regina Vittoria e dal principe Alberto.
Di nuovo al nord, Luigi si procurò un altro trionfo a Pavia con l’atto unico La serva e l’ussero. Infine a Milano, probabilmente mal consigliato oppure illuso dal relativo successo che aveva accolto a Parma il suo Nuovo Figaro nel 1832, tentò il colpaccio con una nuova versione de Le nozze di Figaro, ovviamente con la stessa trama di Beuamarchais da cui il libretto dell’Abate Da Ponte posto in musica da Mozart. Questa volta il pubblico della Scala gli si rivoltò contro. Il fiasco fu clamoroso e al nostro non restò che la via della… finestra.
Su parere di Rossini stesso, a quanto si legge, che gli consigliava continuamente d’essere prudente, il nostro Luigi si diresse decisamente a Trieste, città defilata e quieta sotto l’impero austroungarico. Quivi nel giugno del 1837 ottenne subito il posto di Maestro di Cappella della Cattedrale di San Giusto. Poco più tardi, fu suo pure l’ambito posto di Maestro al cembalo (direttore d’orchestra, si direbbe oggi) al Teatro Grande, in sostituzione del compianto Giuseppe Farinelli. Sembrerebbe che, finalmente, Luigi avesse messo la testa a posto. La morte della sorella a Napoli durante un’epidemia di colera fu motivo di intenso dolore per l’intero gruppo familiare; egli si immerse così, a capofitto, nel lavoro e convinse la madre, altri due fratelli e più tardi, nel 1849, Federico a trasferirsi tutti a Trieste. I Ricci presero alloggio in un vasto e comodo appartamento in Piazza Venezia, a pochi passi dai moli e dal mare, che certo avrà loro ricordato la lontana e bella Napoli.
Nella città giuliana, la fama brillante che lo precedette e lo accompagnava, le molte opere rappresentate con successo in questo teatro, la cordialità e baldanza spiranti dalla sua persona, contribuirono a renderlo in breve una figura popolare. Frequentava la società elegante, l’animoso circolo La favilla di fresco fondato, diresse manifestazioni musicali per la società filarmonico-drammatica, dettò numerosi servizi religiosi per San Giusto. Rinvigorì, in una parola, nell’ambiente triestino l’amore per la musica e per il canto corale. Il tutto senza tralasciare l’attività di direttore al Teatro Grande, dove agì per un ventennio concertando, tra le altre, quasi tutte le opere di Verdi, dal Nabucco nel 1843 ai Vespri siciliani nel 1859.
Educò anche giovani cantanti, per cui scrisse pure molte romanze e … non solo. Due graziose gemelle, omozigoti al punto di essere simili come due gocce d’acqua, arrivarono fresche dei loro diciassette anni dalla Boemia, precisamene da Kostelek nad Labem. Si chiamavano rispettivamente Franziska (Francesca e più familiarmente, Fanny) e Ludmila (Lidia o meglio Liddy) Stolzovà, cognome abbreviato in Stolz e chiesero di essere istruite, prendendo lezioni di canto, dal Maestro. Questi perse la testa e se ne innamorò perdutamente giurando di non potere né sapere distinguerle. Con questa scusa, e con l’implicita loro complicità, divenne l’amante di entrambe. L’amore, si sa, rende ciechi e le gemelle ceche lo erano per davvero! Il menage a trois, si realizzò sotto gli occhi di un di loro fratello, assai tollerante, che faceva finta di non vedere -essendo ovviamente ceco pure lui- e lasciava correre. La tragi-commedia, ben presto a tutti nota, sconvolse la pacifica e morigerata famiglia Ricci. Trieste era pur sempre provincia dell’Impero e per giunta Luigi disimpegnava le funzioni di Maestro di cappella della Cattedrale. Perciò, pur di tacitare le male lingue, Luigi accettò un contratto ad Odessa dove, seguito dalle due passionali sorelle, andò in scena con buon successo La solitaria delle Austrie il 20 febbraio del 1845. E qui avvenne l’incidente che tutte le biografie riportano e di cui dà fede il fratello Federico in una lettera inviata a Francesco Florimo, storico musicale e biografo: “Luigi per non compromettersi in faccia al mondo e non far vedere che alloggiava insieme alle sorelle Stolz, aveva combinato in modo che dalle stanze in cui si dimorava (a Odessa, n.d.r) le sorelle affatto divise erano: ma avevano tra loro stabilito per trovarsi facilmente, un armadio senza fondo che mascherava una porta e di là le sorelle Stolz andavano da Luigi e Luigi andava da loro. Avvenne un giorno che la prima donna che cantava a Odessa si recò accompagnata dal marito a visitare il maestro Ricci. Una delle due Stolz, avendo inteso una voce di donna nella stanza di Luigi, volle far la gelosa e sortì incollerita dall’armadio. Sorpresa generale di quelli che erano presenti, collera di Luigi, imbarazzo di tutti che si guardavano l’un l’altro con stupore fingendo di non intendere l’imbroglio, che risolse Luigi con una gran risata, alla quale fecero eco tutti gli astanti”.
La successiva opera scritta a quattro mani, L’amante di richiamo, fu proposta da Luigi a Federico forse con l’intenzione di ammorbidire l’intransigenza del fratello che, portavoce della famiglia, disapprovava apertamente l’imbarazzante relazione.
Dell’insuccesso, quasi annunciato, se ne potrebbero ritenere dunque, seppure indirettamente, responsabili le Stolz. Ma pare che il libretto di Franceso dell’Ongaro fosse assai scialbo. La prima al Teatro D’Angennes di Torino cadde miseramente. Qualche cosa non funzionava più tra fratelli. I due compositori non s’intendevano come in passato e la loro ispirazione comica parve inaridita. Luigi partì per una tourné in Russia ed in Turchia, portandosi sempre appresso le Stolz che ormai erano ufficialmente le sue amanti. Quando, di ritorno a casa, annunciò l’imminente matrimonio con Liddy, senza per altro voler rinunciare a Fanny, Federico decise che per lui era troppo e ne aveva abbastanza. Se ne andò a Copenaghen, dove un terzo fratello faceva l’impresario e vi rimase fino al 1850.
Nel 1850, appunto, Ludmila mise al mondo una bambina, Adelaide, chiamata poi Lella, Ricci. Due anni dopo fu il turno di Francesca, che partorì l’erede, Luigi Ricci, denominato Luigino per non confonderlo col padre. Nel frattempo le carriere dei due fratelli si erano irrimediabilmente divise, eccezion fatta per l’ultima fatica composta in compagnia, che avrebbe rappresentato per ambedue l’affermazione definitiva di un’intera carriera di operisti. Crispino e la Comare fu accolto trionfalmente il 28 di febbraio 1850 al Teatro San Benedetto di Venezia, in pieno carnevale. Naturalmente, entrambi e per proprio conto, continuarono a scrivere musica: Luigi aveva dato alle scene del Teatro alla Pergola di Firenze, il 4 febbraio del 1847, Il birrajo di Preston, da cui lo scrittore siciliano Andrea Camilleri ha tratto lo spunto per la vicenda di una tra le sue più riuscite novelle. Successivamente saldò un debito con la natale Napoli componendo nel 1852 La festa di Piedigrotta, altro lavoro fortunato e riuscitissimo. Ultima, poco prima di morire, Il diavolo a quattro, conobbe le scene al Teatro Armonia di Trieste nel maggio del 1959. Ormai il carattere di Luigi, negli ultimi tempi, si era incupito. Egli era in preda a frequenti crisi maniaco depressive che seguivano ad altrettanti sbalzi di umore che lo portavano all’euforia. Viveva nel terrore d’impazzire, di “far la fine del povero Donizetti“ di cui era amico e grande estimatore. In effetti, gli esiti della sifilide non si fecero attendere e nel corso di un periodo di ricovero in una clinica di Praga, “specializzata” in malattie nervose, morì demente il 31 dicembre del 1959.
Federico, oltre ai successi raccolti con La prigione di Edimbugo e con Corrado d’Altamura, questa alla Scala nel 1841, dopo il Crispino si trasferì prima a Vienna, quindi a San Pietroburgo, dove fu direttore del Conservatorio ed assunse pure la direzione dei teatri Imperiali. Il contratto prevedeva un congedo annuale di tre mesi durante i quali Federico non mancò mai di recarsi in visita al fratello a Trieste, specie nel periodo in cui la salute venne a mancare, per assistere lui e la famiglia, di cui si occupò attivamente avviando il piccolo Luigino, rimasto orfano ad appena sette anni, alla carriera musicale. Nel 1869 si stabilì, infine a Parigi. Curò una versione francese del Crispino. Il testo fu riscritto da Nuitter e Beaumont, con l’aggiunta di una serenata e di due strofe per Lisetta. Quindi, col nuovo titolo di Le Docteur Crispin, rinnovò il furore della prima veneziana. Avvenne il 18 settembre 1869 al Théatre de l’Athénée. Successo ottenne pure il rifacimento de Il marito e l‘amante, trasformato in Une feéte a Venise, nel 1972. Finalmente Federico si ritirò nella villa di Conegliano Veneto, a godersi un meritato ozio, ma la Comare lo raggiunse presto, il 10 dicembre del 1877.
Appendice:
Una nota a parte la meritano pure i rampolli di Luigi.
Lella Ricci ereditò dalla madre il talento musicale, che era poi una dote familiare. Giova ricordare che la più famosa di tutte le Stolz fu la zia Terezie (1834-1902), più nota come Teresina. Iniziò giovanissima gli studi musicali al Conservatorio di Praga sotto la guida di Giovanni Battista Gardignani, ma per la sua condotta, già ai tempi birichina, ne fu espulsa presto. Nel 1851 decise, dunque, di recarsi a Trieste, ospite pur essa del fratello che avrebbe dovuto tenere a bada le due scatenate gemelle e quindi, come loro, avviata al canto da Luigi Ricci che di lì a poco divenne suo cognato. Debuttò nel 1857 a Tiflis e, dopo una serie di scritture a Odessa, Costantinopoli e Nizza, approdò nel 1864 a Milano come pupilla del celebre Francesco Lamperti. Ivi, nel 1869, fu Leonora nella prima esecuzione italiana de La forza del destino al Teatro alla Scala, diventando presto l’interprete “favorita” di Verdi.
Lella Ricci, ancora adolescente, conobbe i primi successi parallelamente alla più celebre zia, debuttando sedicenne nel 1868 al Teatro Principe Umberto di Firenze. Emilio Usiglio compose per lei l’opera La scommessa: era il 1870. Appena 21enne, Lella fu invitata a Praga, ospite di Bedrich Smetana, che pur essendo regolarmente sposato subì il fascino delle Stolz e ne fece la sua amante. Vi avrebbe dovuto interpretare proprio l’opera che aveva dato maggior fama al padre ed allo zio, Crispino e la comare, ma scoprì d’essere incinta. Per non compromettere Smetana e la carriera, decise di abortire, ma l’intervento le fu fatale: morì di emorragia interna e là, a Praga, venne sepolta.
Maggior fortuna ebbe il fratellastro e cugino, Luigi Ricci. Appresi i primi rudimenti musicali impartiti dallo zio Federico, approfondì l’arte della direzione d’orchestra e fu, oltre che compositore di alcune opere, tra i maestri più quotati, dirigendo spesso, per esempio, al Teatro Real di Madrid nell’arco di tempo che comprende l’ultimo quarto del secolo diciannovesimo. Alla morte della facoltosa zia Teresina, nel 1902 un anno solo dopo la morte di Verdi, ne ereditò i cospicui beni. Sia per gratitudine che per rendere onore alla famiglia da cui vennero tanti musicisti, aggiunse al proprio il cognome Stolz e perciò passò alla storia quale Ricci-Stolz. Morì a Milano nel 1906, all’età di 54 anni, presso la casa di riposo per musicisti voluta da Verdi.
Uno tra i pochi longevi di quella famiglia, fu un altro famoso Stolz, nipote di Teresina e quindi cugino di Luigi. Si tratta di Robert Stolz, nato a Graz nel 1980 e morto a Berlino, 95enne, nel 1975. Compositore di celebri operette (due suoi motivi sono diventati popolarissimi, interpolati nella commedia musicale Al cavallino bianco) di colonne sonore di film girati a Hollywood, che gli garantirono ben due premi Oscar e di tante, tantissime canzoni immortali. Per tutte ricordiamo il tango orientaleggiante Salome, in Italia noto come Abat-jour.
Andrea Merli
parte prima
parte seconda